A seguito della nostra call per Apnea scuola di lettura e editing abbiamo ricevuto circa 60 romanzi. La redazione narrativa e Francesca de Lena li hanno letti e hanno scelto quello su cui lavorare per l’editing gratuito. Dopodiché hanno selezionato altri 5 romanzi, i cui primi capitoli pubblichiamo ora sulla nostra rivista, prima con le note di editing in chiaro e poi in versione definitiva.
Questo è il primo e lo ha scritto Elisabetta Foresti. L’autrice ha presentato un testo maturo e che ha richiesto un editing leggerissimo. Abbiamo lavorato per rendere più chiari un paio di periodi, alleggerire qualche immagine e rendere più fluido il ritmo di alcuni passaggi.
La storia: Marco è in carcere per aver assassinato suo padre. O così pare. Ma è davvero così? Per questo è in carcere? E chi è Marco?
Tagliente, doloroso, senza pietà. Un testo dove nulla è certo, tutti vengono messi di continuo in discussione e ognuno è alla ricerca di una speranza di perdono.
Il misfatto, 1° capitolo (originale con note di editing in chiaro)
di Elisabetta Foresti
Le otto di sera, undici novembre, sabato.
L’ho ucciso io.
È stato semplice legarlo, inebetito com’era, piegargli indietro la testa e infilargli in bocca la carta igienica. Lui all’inizio non si è accorto di nulla, poi ha iniziato a scalciare, a dimenarsi, gemeva e tossiva e ha perfino tentato di alzarsi dal cesso – per fortuna lo avevo legato stretto. E ho continuato a pressargli la carta nella gola e a tenere le dita strette sulle narici, finché ha dilatato gli occhi e non si è mosso più. Ho aspettato diversi minuti, per stare tranquillo, e quando ho capito che era morto l’ho slegato, ho afferrato il suo corpo che si curvava come fosse un fantoccio e l’ho adagiato sul pavimento. Dopo l’ho scavalcato – il gabinetto è piccolo, l’ho sempre detto che è piccolo quel gabinetto, e rosa, oltretutto, le mattonelle sono rosa, le maioliche rosa, dappertutto è rosa, come può un uomo, un costruttore, uno tutto d’un pezzo decidere di fare un gabinetto rosa? – mi sono lavato le mani, rinfrescato il viso e l’ho scavalcato di nuovo. Ma prima di uscire mi sono girato, lo avevo steso su un fianco con le ginocchia piegate e ho guardato la testa incastrata tra cesso e bidè, gli occhi gonfi e tutta quella carta in bocca. Poi me ne sono andato.
Non è questa la verità.
Ma che ne sa lei?
L’avvocato Rendini ha fatto tre passi in direzione dell’armadio e l’ultimo, più pesante, verso la sedia, il busto chinato come a volersi sedere ma subito ripensandoci, subito sollevando le spalle. Si è voltato, e atterrando lo sguardo su di me, ha fatto schioccare le labbra.
Raccontami di quella mattina.
Ancora? Gliel’ho detto. Mi aveva telefonato la governante, una di quelle parlo-solo-inglese, mi ha detto che da un po’ dormiva sempre, dormiva sul divano, dormiva al telefono, dormiva a tavola, perfino davanti al pianoforte dormiva. Sono andato a casa sua, la governante mi ha aperto e sono entrato, l’ho chiamato ma non ha risposto, salone e sala da pranzo erano vuoti, cucina vuota, studio vuoto, in camera da letto non c’era, mi sono affacciato nel gabinetto e lo trovo addormentato sul water; il resto lo sa.
Peccato che la governante non fosse lì, si è fatto un giro della scrivania, l’avvocato, e ha aggrottato la fronte. Perché insisti a mentire?
Sto in galera, a chi vuole che freghi se—
Importa a me.
Non mi metterà in bocca cose che si è inventato lei.
E Rendini, stringendo gli occhi, Forse ti senti in colpa?
Ma vada a farsi fottere.
L’avvocato ha sollevato le sopracciglia. Non fa altro che sollevare le sopracciglia, aggrottare la fronte e schioccare le labbra a ogni mia contestazione – sono mesi che ammuffisco in prigione e di interrogatori ne avrò subiti una trentina.
Per quale ragione lo hai ucciso?
Devo andare al cesso.
Dopo, – il triplo mento ha tremolato – andrai al gabinetto dopo, rispondi ora.
Non ho niente da dire.
C’è molto da dire, dovresti ripensare meglio a quel giorno.Ci sono, ho detto battendomi il palmo sulla fronte, Vuole far esumare la salma, infilargli in corpo quella sostanza e costringermi a cambiare versione.
Qui abbiamo chiesto all’autrice di riformulare il periodo in maniera più chiara in riferimento alle benzodiazepine.
L’avvocato ha sorriso. Ho altri modi.
Ah davvero? Be’, se lo scordi anch’io ho i miei sistemi, e se non mi lascia in pace, le faccio arieggiare l’intestino a forza di forellini in pancia.
L’una e quaranta del pomeriggio, dodici novembre, domenica.
Seduto al tavolino ancorato al pavimento, guardo il mio riflesso sul piano di acciaio lucido: capelli mossi che tra un po’ arrivano alle spalle, naso schiacciato e un colorito, intuisco, bianco cadavere. Non è un granché per darvi le coordinate facciali di me stesso.
Gli zigomi non li vedo ma li immagino sporgenti e gli occhi sospetto siano un incrocio tra il marrone dei campi appena arati e il verde palude. D’altra parte non ho uno specchio, nella cella, e a furia di non vedermi, inizio ad avere dei dubbi sul mio aspetto.
Ma chi se ne infischia, anche.
Ho ventisette anni, di questo sono più che sicuro, diciotto spesi a ingannare me stesso e gli altri nove spesi a ingannare il prossimo, e mi detesto abbastanza, all’incirca quanto si detesterebbe uno che ha passato ventisette anni ingannando il prossimo e ingannando sé stesso. E sì, sono un inguaribile bugiardo. Per necessità, però. Quel tipo di esigenza che nasce dalle circostanze, più che dalla volontà o dall’animo, sebbene le circostanze siano aggirabili, con un po’ di volontà e quanto all’animo non saprei dire.
Sono un maschio bianco sessualmente attivo quanto può essere sessualmente attivo un maschio bianco in prigione. In buona sostanza, mi faccio le seghe. Che è sempre meglio di infilarlo in un buco del muro, ammesso che un buco ci sia, o anche è meglio di farsi una doccia fredda – calda, qui dentro, sperateci di trovarla – e comunque è meglio di non fare nulla. Prima di essere rinchiuso ho svolto molti lavori diversi, che stare qui a raccontarveli tutti perderemmo uno sproposito di tempo, e quindi passo oltre (senza contare che disapprovo le perdite di tempo). Ah, e poi nessuno viene a farmi visita in carcere, perché non ho nessuno – mia madre è morta in un incidente d’auto che di anni ne avevo compiuti dieci.
E più o meno è tutto, per darvi un’idea del sottoscritto e della situazione. Anzi no. Ho mentito poco fa quando vi ho detto che sono un bugiardo, sarebbe più corretto dire che sono omertoso, e comunque, non sono omertoso su tutto e non con tutti, sono omertoso solamente su ciò che riguarda l’assassinio di mio padre, e sono omertoso soltanto con l’avvocato d’ufficio.
Ma con voi, no. Voi siete persone per bene, siete persone a posto. E perciò ci crederete che sto cercando di ricomporre i miei ricordi con l’intento di raccontarvi l’omicidio. Intento che fino a ieri non avrei condiviso, per come la vedo io sono fatti solo miei come ho ammazzato mio padre, se l’ho accoltellato o se l’ho buttato giù dal balcone, o qualche altra messinscena degna di nota.
Ho confessato che l’ho ucciso e tanto dovrebbe bastare.
Ma Rendini sostiene che l’ho ucciso con il Valium mio padre. Con il Valium ve lo immaginate? Prendereste un abbaglio a credere che sia vero, perché non lo è. E non mi interessa se marcirò in questa prigione, non ho nessuna intenzione di ammettere una cosa che non ho fatto. Perché non l’ho fatta, sia chiaro, o meglio l’ho fatta ma non in questo modo, non è così che ho ucciso mio padre. L’ho ucciso ma in un altro modo. E nemmeno voglio ammettere di non avere avuto un movente, una buona ragione per farlo fuori, almeno una, la avevo (tra parentesi, anche più di una), ma Rendini vuole chiudere il mio caso con l’etichetta del raptus improvviso, chiude il mio caso, lui, e raptus improvviso, lui, e. E dorme sonni dorati, lui, e tante grazie, io.
Sicché ho rifiutato. Ma sì. Ho rifiutato di agevolare il suo sonno, ho rifiutato di confermare la sua tesi – Valium e raptus improvviso – e ieri ho presentato la domandina al direttore del carcere.
E già. Adesso capirete tutto. Perché ho ottenuto una matita e un vecchio quaderno con la copertina color ocra, e ho deciso di mettere ogni cosa per iscritto. Mi assumo ogni responsabilità presente e futura di questo resoconto, di questo tratteggio della verità, una verità inessenziale eppure necessaria, una verità che mi preme riferirvi, una verità innaturale o anche naturale, seppure non ordinaria; a ben vedere dovremmo metterci d’accordo su cosa sia la verità, prima d’iniziare, o cosa s’intende per verità.La verità non è durevole, la verità è instabile, la verità è dinamica, cambia a ogni istante la verità, perché non c’è una corrispondenza tra il mio mondo interiore e il vostro, e le spiegazioni difficilmente aiutano a chiarire, le spiegazioni evidenziano le opacità, perché noi e l’intero universo plasmiamo senza sosta nuove interpretazioni, e inversamente, esse plasmano noi. Questa è la sola verità: le cose sono per noi ciò che in fondo vogliamo che siano. Proprio come diceva Elisabetta.Cosa c’entra Elisabetta, adesso.
Be’, in effetti c’entra.
Questa parte, per quanto interessante concettualmente, si inserisce in un flusso di pensiero che rotola libero e inceppa la lettura. Da questo la proposta di modifica con inserimento della frase formulata in alternativa “E la sola verità è che, come diceva Elisabetta, le cose sono per noi ciò che in fondo vogliamo che siano.”
Era la mia fidanzata, Elisabetta. Era. Perché mi ha lasciato. Anzi, in realtà sono io che l’ho indotta a lasciarmi, quel pomeriggio di gennaio prima del parricidio. Un pomeriggio che ha del surreale, a ripensarci, e non solo per il caldo inusitato, ma per la piega di quel finale, che a ben vedere, era tutto contenuto nell’inizio, in quella folle idea di condividere con lei il vagheggiamento dell’assassinio, prima ancora della strategia, che solo in seguito approntai per uccidere mio padre.Ah Elisabetta, mi manchi.
Era una giornata splendida l’ultima volta che l’ho vista, una di quelle giornate assolate che non capitano spesso d’inverno.
L’alleggerimento di alcuni periodi è stato proposto al fine di prediligere il ritmo.
Ci eravamo dati appuntamento in centro e arrivammo in Piazza Augusto Imperatore nello stesso istante. Tipiche nostre, le coincidenze. O forse nemmeno le coincidenze, piuttosto è la simultaneità che avevamo in comune, Elisabetta e io, seppure di simultaneo avevamo ben poco, nel senso del muoverci all’unisono, dico. Però c’era in noi una certa comunanza nella percezione del tempo, questo sì, anche se ho grossi dubbi che lo intendessimo allo stesso modo, il tempo (di cosa io ritengo sia il tempo non voglio parlarne). Eppure una similitudine esisteva e credo consistesse in una forma di fuga dalla realtà che aveva origini diverse per ognuno di noi, ma che aveva, per entrambi, la medesima urgenza di affrancarsi dalle temporanee, quanto concrete incombenze.
Ripensandoci io giunsi in Piazza Augusto Imperatore qualche secondo prima di lei, volevo ripassare il discorso su mio padre, e potei guardarla mentre si avvicinava, avvolta da una bellezza che era insieme sofferenza scura e emozioni luminose.
La guardai pensando che era proprio in gran forma con i jeans attillati, il cappotto nero che le tirava sulla vita e i lunghi riccioli castani. Stranamente in forma, o comunque, più in forma di me, o più in forma di chiunque altro abbia mai visto. Pure di mio padre, che era un fanatico dello sport, del mangiare sano e di lunghi sonnellini ristoratori; mens sana in corpore sano ripeteva mentre mi buttava giù dal letto alle sei di mattina, di domenica e con qualunque clima, per un corroborante giro di corsa sul marciapiede intorno all’edificio – mente malata in corpo malato, altroché.
Ora che ci penso, non riesco a ricordare l’ultima volta che l’ho visto in forma, mio padre.
Nella versione inviataci, il testo proseguiva ancora con una ventina di righe. La proposta di editing è stata quella di fermare qui il capitolo. Questa chiusura, con un palese stato confusionale e contraddittorio e al contempo il richiamo al padre, è molto più d’impatto e, a suo modo, chiude un cerchio.
Il misfatto, 1° capitolo (versione definitiva)
di Elisabetta Foresti
Le otto di sera, undici novembre, sabato.
L’ho ucciso io.
È stato semplice legarlo, inebetito com’era, piegargli indietro la testa e infilargli in bocca la carta igienica. Lui all’inizio non si è accorto di nulla, poi ha iniziato a scalciare, a dimenarsi, gemeva e tossiva e ha perfino tentato di alzarsi dal cesso – per fortuna lo avevo le gato stretto. E ho continuato a pressargli la carta nella gola e a tenere le dita strette sulle narici, finché ha dilatato gli occhi e non si è mosso più. Ho aspettato diversi minuti, per stare tranquillo e, quando ho capito che era morto, l’ho slegato, ho afferrato il suo corpo che si curvava come fosse un fantoccio e l’ho adagiato sul pavimento. Dopo l’ho scavalcato – il gabinetto è piccolo, l’ho sempre detto che è piccolo quel gabinetto, e rosa, oltretutto, le mattonelle sono rosa, le maioliche rosa, dappertutto è rosa, come può un uomo, un costruttore, uno tutto d’un pezzo decidere di fare un gabinetto rosa? – mi sono lavato le mani, rinfrescato il viso e l’ho scavalcato di nuovo. Ma prima di uscire mi sono girato, lo avevo steso su un fianco con le ginocchia piegate, ho guardato la testa incastrata tra cesso e bidè, gli occhi gonfi e tutta quella carta in bocca. Poi me ne sono andato.
Non è questa la verità.
Ma che ne sa lei?
L’avvocato Rendini ha fatto tre passi in direzione dell’armadio e l’ultimo, più pesante, verso la sedia, il busto chinato come a volersi sedere, ma subito ripensandoci, subito sollevando le spalle. Si è voltato, e atterrando lo sguardo su di me, ha fatto schioccare le labbra.
Raccontami di quella mattina.
Ancora? Gliel’ho detto. Mi aveva telefonato la governante, una di quelle parlo-solo-inglese, mi ha detto che da un po’ dormiva sempre, dormiva sul divano, dormiva al telefono, dormiva a tavola, perfino davanti al pianoforte dormiva. Sono andato a casa sua, la governante mi ha aperto e sono entrato, l’ho chiamato, ma non ha risposto, salone e sala da pranzo erano vuoti, cucina vuota, studio vuoto, in camera da letto non c’era, mi sono affacciato nel gabinetto e lo trovo addormentato sul water; il resto lo sa.
Peccato che la governante non fosse lì, si è fatto un giro della scrivania, l’avvocato, e ha aggrottato la fronte. Perché insisti a mentire?
Sto in galera, a chi vuole che freghi se —
Importa a me.
Non mi metterà in bocca cose che si è inventato lei.
E Rendini, stringendo gli occhi, forse ti senti in colpa?
Ma vada a farsi fottere.
L’avvocato ha sollevato le sopracciglia. Non fa altro che sollevare le sopracciglia, aggrottare la fronte e schioccare le labbra a ogni mia contestazione – sono mesi che ammuffisco in prigione e di interrogatori ne avrò subiti una trentina.
Per quale ragione lo hai ucciso?
Devo andare al cesso.
Dopo, – il triplo mento ha tremolato – andrai al gabinetto dopo, rispondi ora.
Non ho niente da dire.
C’è molto da dire, dovresti ripensare meglio a quel giorno.
Ci sono, ho battuto il palmo sulla fronte, vuole far esumare la salma, infilargli in corpo delle benzodiazepine e costringermi a cambiare versione.
L’avvocato ha sorriso. Ho altri modi.
Ah davvero? Be’, se lo scordi, anch’io ho i miei sistemi, e se non mi lascia in pace, le faccio arieggiare l’intestino a forza di buchi in pancia.
L’una e quaranta del pomeriggio, dodici novembre, domenica.
Seduto al tavolino ancorato al pavimento, guardo il mio riflesso sul piano di acciaio lucido: capelli mossi che tra un po’ arrivano alle spalle, naso schiacciato e un colorito, intuisco, bianco cadavere.
Gli zigomi non li vedo, ma li immagino sporgenti e gli occhi sospetto siano un incrocio tra il marrone dei campi appena arati e il verde palude. D’altra parte non ho uno specchio nella cella e, a furia di non vedermi, inizio ad avere dei dubbi sul mio aspetto.
Ma chi se ne infischia, anche.
Ho ventisette anni, di questo sono più che sicuro, diciotto spesi a ingannare me stesso, gli altri nove spesi a ingannare il prossimo, e mi detesto abbastanza, all’incirca quanto si detesterebbe uno che ha passato ventisette anni ingannando il prossimo e ingannando sé stesso. E sì, sono un inguaribile bugiardo. Per necessità, però. Quel tipo di esigenza che nasce dalle circostanze, più che dalla volontà o dall’animo, sebbene le circostanze siano aggirabili con un po’ di volontà e quanto all’animo non saprei dire.
Sono un maschio bianco sessualmente attivo quanto può essere sessualmente attivo un maschio bianco in prigione. In buona sostanza, mi faccio le seghe. Che è sempre meglio di infilarlo in un buco del muro, ammesso che un buco ci sia, o anche è meglio di farsi una doccia fredda – calda, qui dentro, sperateci di trovarla – e comunque è meglio di non fare nulla. Prima di essere rinchiuso ho svolto molti lavori diversi, che stare qui a raccontarveli tutti perderemmo uno sproposito di tempo, e quindi passo oltre (senza contare che disapprovo le perdite di tempo). Ah, e poi nessuno viene a farmi visita in carcere, perché non ho nessuno – mia madre è morta in un incidente d’auto che di anni ne avevo compiuti dieci.
E più o meno è tutto, per darvi un’idea del sottoscritto e della situazione. Anzi no. Ho mentito poco fa quando vi ho detto che sono un bugiardo, sarebbe più corretto dire che sono omertoso e, comunque, non sono omertoso su tutto e non con tutti, sono omertoso solamente su ciò che riguarda l’assassinio di mio padre e sono omertoso soltanto con l’avvocato d’ufficio.
Ma con voi no. Voi siete persone per bene, siete persone a posto. E perciò ci crederete che sto cercando di ricomporre i miei ricordi con l’intento di raccontarvi l’omicidio. Intento che fino a ieri non avrei condiviso, per come la vedo io, sono fatti solo miei come ho ammazzato mio padre, se l’ho accoltellato o se l’ho buttato giù dal balcone.
Ho confessato che l’ho ucciso e tanto dovrebbe bastare.
Ma Rendini sostiene che l’ho ucciso con il Valium, mio padre. Con il Valium, ve lo immaginate? Prendereste un abbaglio a credere che sia vero, perché non lo è. E non mi interessa se marcirò in questa prigione, non ho nessuna intenzione di ammettere una cosa che non ho fatto. Perché non l’ho fatta, o meglio l’ho fatta ma non in questo modo, non è così che ho ucciso mio padre. L’ho ucciso, ma in un altro modo. E nemmeno voglio ammettere di non avere avuto un movente: una buona ragione per farlo fuori, almeno una, la avevo, anche più di una, ma Rendini vuole chiudere il mio caso con l’etichetta del raptus improvviso. E dorme sonni dorati, lui, e tante grazie, io.
Sicché ho rifiutato di agevolare il suo sonno, ho rifiutato di confermare la sua tesi – Valium e raptus improvviso – e ieri ho presentato la domandina al direttore del carcere.
Eh già. Adesso capirete tutto. Perché ho ottenuto una matita e un vecchio quaderno con la copertina color ocra, e ho deciso di mettere ogni cosa per iscritto. Mi assumo ogni responsabilità presente e futura di questo resoconto, di questo tratteggio della verità, una verità inessenziale eppure necessaria, una verità che mi preme riferirvi, una verità innaturale o anche naturale, seppure non ordinaria; a ben vedere dovremmo metterci d’accordo su cosa sia la verità, prima d’iniziare, o cosa s’intende per verità.
E la sola verità è che, come diceva Elisabetta, le cose sono per noi ciò che in fondo vogliamo che siano.
Era la mia fidanzata, Elisabetta. Era. Perché mi ha lasciato. Anzi, in realtà sono io che l’ho indotta a lasciarmi quel pomeriggio di gennaio prima del parricidio. Un pomeriggio che ha del surreale, a ripensarci, e non solo per il caldo inusitato, ma per la piega di quel finale, che a ben vedere, era tutto contenuto nell’inizio, in quella folle idea di condividere con lei il vagheggiamento dell’assassinio, prima ancora della strategia, che solo in seguito approntai per uccidere mio padre.
Era una giornata splendida, ci eravamo dati appuntamento in centro e arrivammo in Piazza Augusto Imperatore nello stesso istante. Tipiche nostre, le coincidenze. O forse nemmeno le coincidenze, piuttosto è la simultaneità che avevamo in comune, Elisabetta e io, seppure di simultaneo avevamo ben poco, nel senso del muoverci all’unisono, dico. Però c’era in noi una certa comunanza nella percezione del tempo, questo sì, anche se ho grossi dubbi che lo intendessimo allo stesso modo, il tempo (di cosa io ritengo sia il tempo non voglio parlarne). Eppure, una similitudine esisteva e credo consistesse in una forma di fuga dalla realtà che aveva origini diverse per ognuno di noi, ma che aveva, per entrambi, la medesima urgenza di affrancarsi dalle temporanee, quanto concrete incombenze.
Ripensandoci io giunsi in Piazza Augusto Imperatore qualche secondo prima di lei, volevo ripassare il discorso su mio padre, e potei guardarla mentre si avvicinava, avvolta da una bellezza che era insieme sofferenza scura ed emozioni luminose.
La guardai pensando che era proprio in gran forma, più in forma di me, o più in forma di chiunque altro abbia mai visto. Anche di mio padre, che era un fanatico dello sport, del mangiare sano e dei lunghi sonni ristoratori; mens sana in corpore sano ripeteva mentre mi buttava giù dal letto alle sei di mattina, di domenica e con qualunque clima, per un corroborante giro di corsa sul marciapiede intorno all’edificio – mente malata in corpo malato, altroché.
Ma, ora che ci penso, non riesco a ricordare l’ultima volta in cui l’ho visto in forma mio padre.
Elisabetta Foresti è nata e vive a Roma. Nel dicembre 2018 si è qualificata prima nello Scouting night live dell’agenzia Oblique Studio, nel 2020 ha superato la prima tranche del concorso letterario 8×8 si sente la voce della stessa agenzia. Ha scritto diversi racconti, l’ultimo pubblicato sulla rivista letteraria Il Rifugio dell’Ircocervo. Nel 2017 ha preso parte ai corsi di scrittura della Scuola Omero di Roma e nel 2018-19 è stata ammessa al laboratorio annuale di Bottega di Narrazione di Giulio Mozzi.