di Nicoletta Verna
Scrivo in primo luogo perché mi consente di tergiversare quando non so bene cosa dire.
(Fra me e mio fratello ci sono 15 anni, e quando io ero una bambina e lui un ragazzino non è che avevamo molto da dirci – lui poi aveva interessi stravaganti tipo la sua Citroën Diane, la Jolly-Colombani Basket e una ragazza carina e minuta, mora, che ogni tanto invitava a casa.
Casa nostra era piccola, io e lui dormivamo nella stessa stanza e un pomeriggio c’era da noi questa ragazza, e io gli stavo fra i piedi.
“Perché [ehm] non esci un po’ a giocare?”
“Perché a giocare da sola mi annoio.”
Stavo seduta sul suo letto dondolando i piedi. Ero una bambina egocentrica, come tutti i bambini, e piuttosto invadente. La ragazza ci guardava scocciatissima.
“Ok. Perché non vai a leggere qualcosa?”
“Perché non so fare. Ho quattro anni.”
Prese il primo libro che trovò sulla scrivania, un manuale di elettrotecnica, e me lo aprì di fronte.
“Seguimi. Questa è la A, poi c’è la B, la C… Si chiama alfabeto. Ci sei?”
La ragazza sbuffò.
“Devi metterle insieme.”
“Come?”
“Le lettere si uniscono e formano le parole. È un concetto davvero molto semplice.”
Pigliò un foglio e fece quattro lettere.
“Così poi si impara a scrivere. Vedi? Questa è una parola.”
“Cosa c’è scritto?”
“C’è scritto C-I-A-O. Vai.”
Mi spinse fuori dalla stanza e chiuse la porta. Li sentii parlottare fra loro, ridere, e mi assalì una certezza: là dentro stava succedendo qualcosa di eccezionale e io non ne facevo parte. Ogni bambino ricorda l’istante in cui la sua convinzione di essere al centro dell’universo si spezza. Per me fu quello, e mi prese una tristezza ignota, quasi un piccolo senso di panico. Allora guardai il manuale di elettrotecnica, e lo aprii).
Scrivo per molti diversi motivi: per piacere (sostantivo ma anche verbo), per necessità, per divertimento, per esprimere una mia idea del mondo o più spesso per mistificarla; scrivo per presunzione o per inadeguatezza, per dire qualcosa che a voce sfuggirebbe o sarebbe diverso (a volte più chiaro, altre più recondito). Scrivo per non sentirmi sola (mentre scrivo mi sento spesso stanca, frustrata, stizzita, completamente incapace eccetera, ma sola mai: sono in compagnia di me stessa, la me stessa che di solito ha altro da fare). Scrivo per poter dire “Che fatica, che tempo perso, che idiozia scrivere”. Per tradire e per nutrire i fatti, trasformandoli in storie. La roba più antica ed eccitante del mondo.
Sono tutte motivazioni vere (lo sono state in qualche momento della mia vita), ma la causa più profonda e radicale per cui scrivo, quella che sta alla base di tutto, credo alla fine sia un’altra, e devo di nuovo tergiversare.
(C’è una persona molto importante che sta male. Ha avuto un incidente grave e devo passare la notte con lei in ospedale e sono terrorizzata, penso che non ce la farò. Che questo pertiene alla gamma di questioni impossibili da sopportare: e invece devo sopportarla. Potrei bere o drogarmi, mi dico, ma l’effetto finirebbe quasi subito e poi avrei i postumi, invece qui devo essere lucida, lucida per quando serve ma anche assente, per sopravvivere. Potrei pensare ad altro, ma a me non riesce mai di pensare ad altro. Il pensiero è fluido, ondivago, torna subito dove non deve. Allora potrei scrivere. La scrittura è precisa e pretenziosa, totalizzante, semplice a suo modo. Pretende tutto di me, e il più delle volte lo ottiene.
Accendo il computer e la storia da stendere arriva subito: c’è una valletta che si lascia cadere la spallina del vestito e mostra il seno per sollevare lo share del programma-spazzatura dove sta lavorando. Lo fa con vergogna, con disgusto verso sé stessa; lo fa perché non si ama e non si ama perché sa di essere invisibile agli occhi di sua madre. Sorride in questa sua vacua messa in scena, mentre offre il seno a milioni di sconosciuti, e c’è dentro tutta la desolazione e rassegnazione di certi tipi di dolore, i più opachi e irrimediabili (“irrimediabile” è la parola che continua a vorticarmi in testa e che continuo a scrivere, a ripetere, a rendere con sinonimi). Scrivo, e mentre scrivo so che nella vita di questa valletta non c’è niente, niente della mia, eppure c’è tutto di me. L’idea che per certe ferite non c’è semplicemente niente da fare. La certezza che si sopravvive solo per via di compromessi che un giorno ci sembreranno ridicoli. La certezza che si sopravvive, e vaffanculo. C’è tutto di me e non c’è niente, e intanto fuori è l’alba. La persona sul letto respira ancora, e io ho sopportato il terrore di quella notte).
Scrivo esattamente per questo. Per lo stesso motivo che capii subito, a quattro anni, mentre imparavo a leggere e scrivere da sola, sul manuale di elettrotecnica di mio fratello che se la spassava con la sua ragazza: per trovare riparo da qualunque forma di rifiuto, emarginazione, solitudine, paura, piccola noia quotidiana. Per dire “torno subito” – e però, strano, non è mai fuga: è sempre esserci, però esserci in un modo confortevole, egoistico e consolatorio.
Scrivo insomma perché è un rifugio. E, lo so, un concetto molto ovvio che non meritava tutte queste digressioni, ma alla fine scrivo pure per questo: dipanare il nodo di storie che soggiacciono a qualunque nozione banale, e solo così coglierne l’unicità, il cuore, la ragione.
Nicoletta Verna (1976) è romagnola ma vive a Firenze, dove si occupa di comunicazione e web marketing nel settore editoriale. È autrice di saggi e volumi su media e cultura di massa e ha insegnato teorie e tecniche della comunicazione presso diversi atenei e istituti italiani. Ha scritto racconti pubblicati sulle riviste letterarie Pastrengo, Carie letterarie, Narrandom, Risme. Il suo romanzo d’esordio, Il valore affettivo (Einaudi, 2021), è stato protagonista di una edizione di Apnea, il nostro corso di editing, e ha poi ottenuto la Menzione Speciale della Giuria alla XXXIII edizione del Premio Italo Calvino.