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Bullezzumme – Prima e dopo l’editing

A seguito della nostra call per Apnea scuola di lettura e editing abbiamo ricevuto circa 60 romanzi. La redazione narrativa e Francesca de Lena li hanno letti e hanno scelto quello su cui lavorare per l’editing gratuito. Dopodiché hanno selezionato altri 5 romanzi, i cui primi capitoli pubblichiamo ora sulla nostra rivista, prima con le note di editing in chiaro e poi in versione definitiva


Questo è il secondo e lo ha scritto Francesco Cozzolino. L’autore ha presentato un romanzo maturo, molto lavorato dal punto di vista della parola. Lo scopo generale dell’editing per questo primo capitolo è stato quello di alleggerire alcuni passaggi e dosare, bilanciare l’utilizzo di termini arcaici o dialettali in modo che fossero al servizio della voce autoriale e non la soffocassero o la appesantissero.


La storia: la Città Vecchia è minacciata da una tempesta: Barbabuc si preannuncia disastrosa. La bananiera Sabrina dai Caraibi fa rotta verso il Vecchio Mondo. Sul ponte c’è il Capitano, che guida gli uomini con pugno di ferro; nella stiva, invece, un carico misterioso, che ogni notte tormenta l’equipaggio con bisbigli e sussurri: sono uomini la cui isola d’origine è sprofondata nell’Oceano. Quando il disastro sembra inevitabile, la tempesta inspiegabilmente vira. La città è salva, tuttavia Barbabuc si lancia in mare aperto e costringe la Sabrina a deviare la propria rotta e a puntare proprio verso la Città Vecchia, il primo porto sicuro. Un’altra sfida, ben più difficile, si presenta per la comunità della città: accogliere i superstiti.


Bullezzumme, 1° capitolo (originale con note di editing in chiaro)

di Francesco Cozzolino

Quando s’ha a che fare col mare poco è certo e nulla è scontato. La Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie era schierata sulla banchina. Un sole amariglio bruciava in fondo alle onde. L’orizzonte era sgombro, ma tutti sapevano che presto o tardi qualcosa sarebbe apparitoapparso.

A molte leghe di distanza, infatti, in un altrove ancora da chiarire, la chiglia della Sabrina era già in acqua. Avantitutta, le diciottomila tonnellate della bananiera solcavano i flutti con esasperante lentezza.

Azzimato e baffuto, il Capitano ciondolava sul ponte, indeciso se continuare col gin o inaugurare quella fumata che l’aveva blanditosolleticato per tutta la mattina.

Molto più sotto, l’equipaggio stava in ozio, appancacciato su sedili di fortuna nella panciatrippa d’acciaio della nave. Intorno, un mare noievolenoioso si stirava per nessuno sa quante leghe.

La calmeriacalma che lo circondava non era di suo gradimento, era un uomo di manovre, il Capitano. S’accese la paglia e sbuffò un fumo bianchissimo. Nessun vento lo raccolse e le volute rimasero a cincischiargli intorno al viso.

Tanto razionale quanto fumino, ogni volta che abbandonava la logica, il Capitano ci vedeva giusto. E risolveva grattacapi ed enigmi. Tranne quello del suo passato: laggiù c’era un guazzabuglio che nessuna libecciata avrebbe sbrogliato.

Isole perdute, notti senza tempo, forse una donna amata. Ad ogni buon conto, da quand’era Capitano mai e poi mai un naufragio.

Diradata la nebbia, si specchiò nella volta ialina. Era un cielo truffatore di cui non ci si poteva fidare. Il Capitano lo sapeva bene, ne aveva veduti di cieli così. Li aveva attraversati tutti per trovarci sempre lo stesso umore maccaioso e foriero di tempesta.

Poco prima aveva usato la bussola, la rotta era precisa e la Sabrina la rincorreva seguiva mansueta. Non c’era molto altro da fare, oziare vigili e ascoltare i pesci alati.

Avevano scapolato la punta dell’Isabela, passato il Canal e si erano lasciati alle spalle la Baia Limón. Per non insanire uscire di senno, la calmeria andava sfruttata. Sapendolo bene, il Capitano chiamò il Secondo, un pastracchione di quasi due metri, e tramarono la faccenda architettarono il furto.

Il Secondo scese abbasso, una volta in cambusa s’appiattì al muro e infilò la mano nel sacco del caffè. Una staffilata di mestolo lo fece ritrarre.
“È per il Capitano.”
Il Cuoco lo guardò dal basso all’alto con l’arma puntata L’ometto intinse il ramaiolo nei chicchi e rovesciò nella mano del Secondo una mestolata di pura arabica. Poi sibilò: “Non ti voglio più rivedere fino a cena.”
Il Secondo stronfiò e acciuffò il macinino.

Una volta sul ponte, principiò a girare l’arnese. Quando l’effluvio giunse alle froge narici del Capitano, il suo corpo ebbe un sussulto amoroso. Rammemorò il tango, i tramonti della pampa e il madore appiccicoso di Cuba. Tornò con la mente ai carillon, ai mosconi e agli organetti, alla colorata galera di Valparaíso.
Il caffè era godevole piacevole come un giorno di sbarco. Seduti a prua, i piedi sul cabestano, il Capitano e il suo Secondo sorbirono la bibita nella calma di vento, sotto una volta trapunta di nuvoli.
Fu allora che, in fondo al loro sguardo, sul filo sottile tra cielo e onde, apparve una Fatamorgana.
Ellissi e sferoidi danzavano all’orizzonte, erano donne lucenti e mostri marini. Erano dèi schernitori a caporiverso sulle acque.
Il Secondo si sentì atterrito e fece per indietreggiare. Il miraggio non turbò invece gli occhi del Capitano che ben conoscevano le stelle e le praterie azzurre.

Il suo petto non temeva lusinghe e per un visibilio di notti s’era gcullato in compagnia di simili chimere. Soltanto, gli strinse il cuore e glielo riempì d’un amorgrande.
L’oceano va ascoltato col cuore incline alla metafora. Per il Capitano il mare era tutto, forse perché era l’unico luogo grande abbastanza da contenere i suoi ingombranti ricordi, o probabilmente perché era il suo unico talento.
Ci sono innumerabili maniere per raccontare una storia di mare, ma una faccenda non deve mai mancare: le bugie.
Aveva barato col destino, s’era fatto infinocchiare dal mare che gli aveva preso l’anima. Forse per tutti i marinai va così, pensava. Nondimeno lui era contento.
In mare poteva fare ciò che in terra non gli era riuscito: far giustizia. Essere retto e forse, di tanto in tanto, persino felice.
Successe in quel momento: un colpo di dritta e il caffè spagliò traboccò dalla tazza. Il Capitano sentì alzarsi un vento di traverso.
Si drizzarono entrambi per controllare: il mare pareva immoto, un visibilio di nuvoli di cotone pascolava davanti a loro. Un’altra ventata colpì il Secondo che s’aggrappò a un tientibene, poi più nulla.
Secondo i calcoli del Capitano, quella sera si sarebbero lasciati a destra La Tortuga. Poi la notte sarebbe arrivata, e con lei l’Oceano. Più niente si sarebbe visto per molte leghe. Decisero che l’incidente fosse uno scherzo del mare e s’assopirono.
Dieci metri sotto i loro piedi si raccontava un’altra storia. Nel ventre acciaioso, a fianco dei quattro motori maleodoranti, c’erano loro: novantanove teste che ciondolavano. Stavano raggomitolati sugli strapuntini, le iridi di vetro scuro e le pance vuote.

A tremila leghe dalla bananiera, la situazione era di tutt’altra pasta. Bartolomeo Malaccorto calò per il vicolo con gli occhi puntati al mare. Il mare non c’era, ma tutti lo potevano intuire.
Ai piedi dei palazzi i tombini stornellavano e dall’alto di piazza Fontane Marose la sua testa chiomeggiava tra i passanti. Era già tarda mattina, ma la Città Vecchia pareva impigliata in un infinito risveglio.
Affacciata alla finestra, una strega armata di battipanni scudisciava un guanciale. Due gelosie più sotto, tre ragazzini caricavano le cerbottane, un uomo dormigliava sul gradone della chies e una conventicola di donne sbuccinava cicalava sull’imminente tempesta.

Sbuccinare significa spettegolare. Si può spettegolare di una tempesta imminente? No, quindi abbiamo lavorato su un verbo che seppur “desueto” mantenesse un significato più centrato.

“Sei ancora vivo.”
Simona lo squadrò a caporiverso, appesa coi piedi a un tiglio ramacciuto.
“Ho trovato un nido di grifoni al Mandraccio.”
“Non ci sono grifoni lì.”
“Ti dico che sono grifoni.”

Scese con un balzo e lo guardò in tralice. Aveva gli occhi calamarati, chissà cos’aveva combinato quella malanotte.
Scarpe inzaccherate e camiciona macchiosa, ripeté: “Sei ancora vivo.”
“Sono ancora vivo.”
“Quando muori?”
“Non è chiaro, ma t’avviserò.”
Simona aveva sei dieci anni ed era la regina del quartiere, una regina astuta e brindellona.

Simona, per linguaggio ed esperienze raccontate dopo, non può avere sei anni. Abbiamo suggerito all’autore di darle un’età diversa, coerente con modo in cui parla e ciò di cui racconta.

Conosceva come pochi i luoghi più rabbrividevoli dalla Città Vecchia e se la spassava a dar nomi alle cose e metter paura a tutti.
Di tanto in tanto Bartolomeo si concedeva lunghe passeggiate con lei: partivano dalla Porta di Sant’Andrea, inespugnata per mille anni, e sgambavano tra bassorilievi di guerrieri e santi specialisti in draghi. Passavano i castelli d’acqua e i bronzini, i ninfei diabolici tempestati di conchiglie, giravano tra i mascheroni delle fontane, ribattezzate da Simona le facce che buttano acqua, i trogoli e i barchili che tanto piacevano a Bartolomeo.

Era lungo quei vicoli, secondo la regina, che in certe precise notti, malombre e violinisti diabolici si riversavano annoiati a far baldoria.
C’erano i galeotti della Torre Grimaldina, i frati del Convento Scomparso, a volte si vedeva anche lo spettro di vico dei librai.
“Attraversano i portoni chiusi, o scendono cavalcioni alle grondaie.”
“Dici?”
“Certi piombano giù dalle gargolle.”
“E poi?”
“Fanno incantesimi, sono le luci dei vicoli che li attirano.”
“E che fanno?”
“Come, che fanno, testa di caffè, folleggiano.”
“E tu che ne sai?”
“Io sto con loro.”
Bartolomeo era tutto fuorché sicuro di quelle storie, ma Simona era molto seria a riguardo.
“Poi ci sono le Pietre Parlanti.”
“E dove sono?”
“Stanno un po’ ovunque.” Urlò mentre stava già filando via.

La ragazzetta lo riforniva di leggende della Città Vecchia, gli parlava dei templi sotterranei e dei boschi sacri oltre la Porta d’Occidente, si dilungava sui campanili invisibili dei vicoli e le ostie rubate alla Santa Maria delle Vigne e usate per fatture e sortilegi.
Era un mondo spaventevole che poco si conciliava con le sue idee raziocinanti: Bartolomeo Malaccorto era scienziato.
Le sue innumerabili imprese erano documentate in un faldone aperto sul tavolo del tinello.
Orfano di padre e madre, viveva nel lascito di zia Esmeralda: una soffitta in piazza del Serriglio nella quale aveva ricavato studio e dimora.
Le origini delle sue fatiche stavano nell’infanzia. A cinque anni inventò una teleferica per trasportare i giochi dalla cameretta dell’orfanotrofio al giardino.
A sette costruì una sveglia ad acqua e a dodici anni planò dalla torre degli Embriaci fino al Mandraccio con due ali congegnate con le pagine della Gazzetta del Sestiere.

Il pamphlet era anche l’unico mezzo d’informazione che dava eco alle sue peripezie.
Il suo disegno più ardimentoso, tuttavia, gli s’instillò nella zucca molti anni dopo, quando concepì il suo proponimento: conoscere la morte. E per farlo, doveva prima morire.
Ci aveva provato innumerabili volte, se alcuni erano stati miserevoli fallimenti, in un paio d’occasioni quasi gli riuscì. Purchessia, quell’attività lo teneva impegnato giorno e notte.
Non aveva altre passioni, non amava le persone, era indifferente al denaro, alla carne e alle verdure. Adorava il pesce e, a parte il suo consueto Asinello, raramente beveva.
Diffidava delle cornacchie, dei motori a scoppio e delle donne, eccezion fatta per Tilde.
Non si può dire che fosse socievole, era spesso pensieroso, chiuso nella sua zucca a fantasticare. Parlava con poche anime, non gli piaceva passar troppo tempo con la gente, che poi quelli gli chiedevano di dire e volevano sapere, e lui poco sapeva e poco aveva da dire. O meglio, non che non sapesse, ma non sapeva come dirlo. Insomma, s’ingarbugliava con le parole.
Non per questo si può dire che fosse arido. Gli piacevano l’elettricità e l’acqua, sia quella salata sia quella dolce.
Ammirava i gabbiani e aveva un debole per le fontane, specialmente quelle più intricate, più zampilli avevano e più gl’interessava guardarle. Ben tollerava anche i gatti, che parevano avere la sua stessa visione del mondo.
Spesso, nell’aria serotina, sedeva sull’angusto terrazzo a fantasticare. Sotto di lui, una distesa di panni stesi ad asciugare come paesi lontani. Per i vicoli brulicavano gabbamondo, ciurmatori e cameriere con le sporte del mercato che dondolavano come barchi.
Accendeva le due lucerne a olio e sognava di conquistare i propri sogni. Le onde che arrivavano smorzate gli ricordavano quanto illusorio fosse il suo proponimento, nondimeno in fondo al cuore, ch’era rimasto quello di un bambino d’orfanotrofio, serbava la fioca speranza di riuscire. A patto però di non cedere a distrazioni, di terra, di mare o dell’anima.


Bullezzumme,  capitolo (versione definitiva)

di Francesco Cozzolino

Quando s’ha a che fare col mare poco è certo e nulla è scontato. La Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie era schierata sulla banchina. Un sole amariglio bruciava in fondo alle onde. L’orizzonte era sgombro, ma tutti sapevano che presto o tardi qualcosa sarebbe apparso.

A molte leghe di distanza, infatti, in un altrove ancora da chiarire, la chiglia della Sabrina era già in acqua. Avantitutta, le diciottomila tonnellate della bananiera solcavano i flutti con esasperante lentezza.

Azzimato e baffuto, il Capitano ciondolava sul ponte, indeciso se continuare col gin o inaugurare quella fumata che l’aveva solleticato per tutta la mattina.

Molto più sotto, l’equipaggio stava in ozio, appancacciato su sedili di fortuna nella trippa d’acciaio della nave. Intorno, un mare noioso si stirava per nessuno sa quante leghe.

La calma che lo circondava non era di suo gradimento, era un uomo di manovre, il Capitano. S’accese la paglia e sbuffò un fumo bianchissimo. Nessun vento lo raccolse e le volute rimasero a cincischiargli intorno al viso.

Poco prima aveva usato la bussola, la rotta era precisa e la Sabrina la seguiva mansueta. Non c’era molto altro da fare, oziare vigili e ascoltare i pesci alati.

Avevano scapolato la punta dell’Isabela, passato il Canal e si erano lasciati alle spalle la Baia Limón. Per non uscire di senno, la calmeria andava sfruttata. Sapendolo bene, il Capitano chiamò il Secondo, un pastracchione di quasi due metri e architettarono il furto.

Il Secondo scese abbasso, una volta in cambusa s’appiattì al muro e infilò la mano nel sacco del caffè. Una staffilata di mestolo lo fece ritrarre.

“È per il Capitano.”

Il Cuoco lo guardò dal basso all’alto con l’arma puntata L’ometto intinse il ramaiolo nei chicchi e rovesciò nella mano del Secondo una mestolata di pura arabica. Poi sibilò: “Non ti voglio più rivedere fino a cena.”

Il Secondo stronfiò e acciuffò il macinino.

Una volta sul ponte, principiò a girare l’arnese. Quando l’effluvio giunse alle narici del Capitano, il suo corpo ebbe un sussulto amoroso. Rammemorò il tango, i tramonti della pampa e il madore appiccicoso di Cuba. Tornò con la mente ai carillon, ai mosconi e agli organetti, alla colorata galera di Valparaíso.

Il caffè era piacevole come un giorno di sbarco. Seduti a prua, i piedi sul cabestano, il Capitano e il suo Secondo sorbirono la bibita nella calma di vento, sotto una volta trapunta di nuvoli.

Fu allora che, in fondo al loro sguardo, sul filo sottile tra cielo e onde, apparve una Fatamorgana.

Ellissi e sferoidi danzavano all’orizzonte, erano donne lucenti e mostri marini. Erano dèi schernitori a caporiverso sulle acque.

Il Secondo si sentì atterrito e fece per indietreggiare. Il miraggio non turbò invece gli occhi del Capitano che ben conoscevano le stelle e le praterie azzurre.

Il suo petto non temeva lusinghe e s’era già cullato in compagnia di simili chimere.

Per il Capitano il mare era tutto, forse perché era l’unico luogo grande abbastanza da contenere i suoi ingombranti ricordi, o probabilmente perché era il suo unico talento.

In mare poteva fare ciò che in terra non gli era riuscito: far giustizia. Essere retto e forse, di tanto in tanto, persino felice.

Successe in quel momento: un colpo di dritta e il caffè traboccò dalla tazza. Il Capitano sentì alzarsi un vento di traverso.

Si drizzarono entrambi per controllare: il mare pareva immoto, un visibilio di nuvoli di cotone pascolava davanti a loro. Un’altra ventata colpì il Secondo che s’aggrappò a un tientibene, poi più nulla.

Secondo i calcoli del Capitano, quella sera si sarebbero lasciati a destra La Tortuga. Poi la notte sarebbe arrivata, e con lei l’Oceano. Più niente si sarebbe visto per molte leghe. Decisero che l’incidente fosse uno scherzo del mare e s’assopirono.

Dieci metri sotto i loro piedi si raccontava un’altra storia. Nel ventre acciaioso, a fianco dei quattro motori maleodoranti, c’erano loro: novantanove teste che ciondolavano. Stavano raggomitolati sugli strapuntini, le iridi di vetro scuro e le pance vuote.

A tremila leghe dalla bananiera, la situazione era di tutt’altra pasta. Bartolomeo Malaccorto calò per il vicolo con gli occhi puntati al mare.

Ai piedi dei palazzi i tombini stornellavano e dall’alto di piazza Fontane Marose la sua testa chiomeggiava tra i passanti. Era già tarda mattina, ma la Città Vecchia pareva impigliata in un infinito risveglio.

Affacciata alla finestra, una strega armata di battipanni scudisciava un guanciale. Due gelosie più sotto, tre ragazzini caricavano le cerbottane, un uomo dormiva sul gradone della chiesa e una conventicola di donne cicalava sull’imminente tempesta.

“Sei ancora vivo.”

Simona lo squadrò a caporiverso, appesa coi piedi a un tiglio ramacciuto.

Scese con un balzo e lo guardò in tralice.

Scarpe inzaccherate e camiciona macchiosa, ripeté: “Sei ancora vivo.”

“Sono ancora vivo.”

“Quando muori?”

“Non è chiaro, ma t’avviserò.”

Simona aveva dieci anni ed era la regina del quartiere, una regina astuta e brindellona.

Conosceva come pochi i luoghi più rabbrividevoli dalla Città Vecchia e se la spassava a dar nomi alle cose e metter paura a tutti.

Di tanto in tanto Bartolomeo si concedeva lunghe passeggiate con lei: partivano dalla Porta di Sant’Andrea, inespugnata per mille anni, e sgambavano tra bassorilievi di guerrieri e santi specialisti in draghi. Passavano i castelli d’acqua e i bronzini, i ninfei diabolici tempestati di conchiglie, giravano tra i mascheroni delle fontane, ribattezzate da Simona le facce che buttano acqua, i trogoli e i barchili che tanto piacevano a Bartolomeo.

Era lungo quei vicoli, secondo la regina, che in certe precise notti, malombre e violinisti diabolici si riversavano annoiati a far baldoria.

C’erano i galeotti della Torre Grimaldina, i frati del Convento Scomparso, a volte si vedeva anche lo spettro di vico dei librai.

“Attraversano i portoni chiusi, o scendono cavalcioni alle grondaie.”

“Dici?”

“Certi piombano giù dalle gargolle.”

“E poi?”

“Fanno incantesimi, sono le luci dei vicoli che li attirano.”

“E che fanno?”

“Come che fanno, testa di caffè? Folleggiano.”

“E tu che ne sai?”

“Io sto con loro.”

Bartolomeo era tutto fuorché sicuro di quelle storie, ma Simona era molto seria a riguardo.

La ragazzetta lo riforniva di leggende della Città Vecchia, gli parlava dei templi sotterranei e dei boschi sacri oltre la Porta d’Occidente.

Era un mondo spaventevole che poco si conciliava con le sue idee raziocinanti: Bartolomeo Malaccorto era scienziato.

Orfano di padre e madre, viveva nel lascito di zia Esmeralda: una soffitta in piazza del Serriglio nella quale aveva ricavato studio e dimora.

Le origini delle sue fatiche stavano nell’infanzia. A cinque anni inventò una teleferica per trasportare i giochi dalla cameretta dell’orfanotrofio al giardino.

A sette costruì una sveglia ad acqua e a dodici anni planò dalla torre degli Embriaci fino al Mandraccio con due ali congegnate con le pagine della Gazzetta del Sestiere. Il suo disegno più ardimentoso, tuttavia, gli s’instillò nella zucca molti anni dopo, quando concepì il suo proponimento: conoscere la morte. E per farlo, doveva prima morire.

Ci aveva provato innumerabili volte, se alcuni erano stati miserevoli fallimenti, in un paio d’occasioni quasi gli riuscì. Purchessia, quell’attività lo teneva impegnato giorno e notte.

Non aveva altre passioni, non amava le persone, era indifferente al denaro, alla carne e alle verdure. Adorava il pesce e, a parte il suo consueto Asinello, raramente beveva.

Diffidava delle cornacchie, dei motori a scoppio e delle donne, eccezion fatta per Tilde.

Non si può dire che fosse socievole, era spesso pensieroso, chiuso nella sua zucca a fantasticare. Parlava con poche anime, non gli piaceva passar troppo tempo con la gente, che poi quelli gli chiedevano di dire e volevano sapere, e lui poco sapeva e poco aveva da dire. O meglio, non che non sapesse, ma non sapeva come dirlo. Insomma, s’ingarbugliava con le parole.

Non per questo si può dire che fosse arido. Gli piacevano l’elettricità e l’acqua, sia quella salata sia quella dolce.

Ammirava i gabbiani e aveva un debole per le fontane, specialmente quelle più intricate, più zampilli avevano e più gl’interessava guardarle. Ben tollerava anche i gatti, che parevano avere la sua stessa visione del mondo.

Spesso, nell’aria serotina, sedeva sull’angusto terrazzo a fantasticare. Sotto di lui, una distesa di panni stesi ad asciugare come paesi lontani. Per i vicoli brulicavano gabbamondo, ciurmatori e cameriere con le sporte del mercato che dondolavano come barchi.

Accendeva le due lucerne a olio e sognava di conquistare i propri sogni. Le onde che arrivavano smorzate gli ricordavano quanto illusorio fosse il suo proponimento, nondimeno in fondo al cuore, ch’era rimasto quello di un bambino d’orfanotrofio, serbava la fioca speranza di riuscire. A patto però di non cedere a distrazioni, di terra, di mare o dell’anima.


Francesco Cozzolino è originario di Genova ma vive a Torino. Ha pubblicato il romanzo Il Blues della Maddalena (Golem 2019) e una serie di racconti inseriti in varie antologie.


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