A seguito della nostra call per Apnea scuola di lettura e editing abbiamo ricevuto circa 60 romanzi. La redazione narrativa e Francesca de Lena li hanno letti e hanno scelto quello su cui lavorare per l’editing gratuito. Dopodiché hanno selezionato altri 5 romanzi, i cui primi capitoli pubblichiamo ora sulla nostra rivista, prima con le note di editing in chiaro e poi in versione definitiva
Questo è il terzo e l’ha scritto Cosimo Damato. L’intervento di editing si è concentrato solo sull’alleggerimento di certi passaggi e sulla pulizia di alcuni paragrafi per rendere più fluida la lettura.
La storia: Il protagonista arriva in un campo profughi in Bosnia, con l’obiettivo di superare la frontiera con la Croazia. Ha un passaporto e un documento di riconoscimento, ma le frontiere sono ormai chiuse per tutti, anche per lui che fino a poco tempo prima aveva potuto godere dei privilegi derivanti dall’essere occidentale. Sopporta la distanza dalla famiglia, anche la morte del padre, ma la scomparsa della sua compagna, che da anni ormai vede solo dentro lo schermo di un telefono, segna il suo crollo nervoso. Decide di percorrere la rotta balcanica e diventare un clandestino pur di raggiungere il Paese della sua amata e ritrovarla.
L’uomo che cadde dall’aereo, 1° capitolo (originale con note di editing in chiaro)
di Cosimo Damato
È come se il mare, che bagna più sponde senza nessuna preferenza, decidesse a un certo punto di non accettare più il piscio di una delle popolazioni che in esso s’immergono. Così l’uomo, contro natura, si è inventato confini geografici dentro i quali si è rinchiuso, convincendo i suoi vicini della bontà di quella scelta. Non ha dimenticato però, che per creare una strada, non c’è bisogno di denaro: basta calpestare varie volte il terreno per ricavarne un tragitto, e sa, che se armati di perseveranza, da qualsiasi punto sulla terra ci si appresti a partire, si può arrivare a destinazione. E sa anche che è uno stupido, quell’uomo che costruisce muri alti decine di metri, dimenticandosi che le leggi della gravità sono sempre in agguato, e aspettano una piccola usura per farlo crollare. È per questo che, chi sta al potere, ha pensato bene di istruire i propri cittadini a sostituirsi ai mattoni, affinché il muro fosse formato da leggi, idee, tradizioni e pregiudizi, non soggetti alle leggi della gravità, e intorno a questi ha demarcato una linea invisibile, ma difficile da superare: la frontiera.
Paragrafo eliminato per evitare di iniziare con una considerazione del narratore. Portiamo subito il lettore nella storia, nella vicenda.
Sono stato il primo occidentale ad arrivare al campo profughi gestito da Cookswithoutborders, in Bosnia. Il primo provvisto di regolare passaporto e documento di riconoscimento che aveva esigenza di passare la frontiera illegalmente. O almeno, questo è quello che disse Haris, il volontario con il quale ero entrato in contatto mesi prima, quando ancora cercavo di capire quanto fosse attuabile quel progetto. Appena mi vide, aprì le braccia per darmi il benvenuto. e disse:
«Eccoti qui finalmente, sei il primo».
Non era sorpreso, sapeva che prima o poi sarebbe arrivato quel momento, e infatti quasi godette quando mi vide, come se avesse scommesso con qualcuno che prima o poi lì, sarebbero arrivati anche gli occidentali.L’esperienza gli evitò di farmi domande inutili, sapeva perfettamente di cosa avessi bisogno.
Gestione del punto di vista: il narratore è in prima persona, non può avere certezza di questa affermazione e riportare il punto di vista di un terzo.
Mi portò in una tenda fatta teli di plastica, tenuta in piedi da mazze di legno che sembravano manici di scopa spezzati. Non era molto grande all’interno, ma lo era abbastanza da ospitare due materassi singoli attaccati tra loro, gettati a terra senza il sostegno di nessuna brandina. C’era un piccolo passaggio intorno al giaciglio. Non c’erano armadi per i vestiti, niente comodini per le lampade, niente lampade. Haris, mi diede una pacca sulle spalle e mi invitò a riposarmi. Mentre mi sedevo e tastavo la morbidezza del materasso, mi spiegò che avrei avuto la possibilità di restare in quella tenda per tutto il tempo necessario; quel posto, diviso da una rete metallica dal campo vero e proprio, era riservato al personale del campo e, visto il mio aspetto, sarei potuto passare per uno di loro.
Durante il tragitto, fino alla tenda, diedi un’occhiata disinteressata intorno. Forse per l’orario, o per il periodo, non percepii una grossa attività. Una sorta di capannone fatto di un materiale plastico, grande quanto un campo da tennis, stava al centro del perimetro recintato; ai lati, ma lontane dalla rete, c’erano altre tende come quella nella quale mi trovavo io, più una dozzina di bagni chimici, dei container con altri posti letto e una cisterna mobile.
«È potabile?», chiesi mentre la sorpassavamo.
«È l’unica che abbiamo», rispose.
Abbiamo chiesto all’autore di rendere il dialogo più fluido, senza eccedere con i dialogue tag (“lui disse, lui rispose”). Non servono.
La sterpaglia e l’erba della foresta vicina, si estendevano fino all’interno del rifugio, ma la loro crescita veniva interrotta dal ripetuto passaggio delle scarpe, le quali, nei punti più trafficati, avevano creato dei corridoi tra l’erba alta: unico segno della vita all’interno del campo. Nella direzione opposta alla foresta, a chilometri di distanza, c’era la città: da lì arrivavano gli uomini, le donne, i bambini e gli anziani, con l’obiettivo di lasciare il Paese ed entrare in un altro. Al di là della foresta, infatti, c’era la frontiera.
Fui grato del fatto che Haris non mi avesse fatto domande, e mi avesse condotto direttamente in un posto nel quale avrei potuto riposare. Accennai un sorriso e annuii quando mi spiegò la faccenda del volontariato e dei privilegi che ne derivavano, in quel momento non mi importava e non capivo quali differenze ci fossero tra i due campi, avrei voluto solo dormire. Le mie mani carezzarono il materasso e furono le prime ad assaporare il sonno che successivamente avrei goduto. Avrei pensato più tardi al fatto che avrei dovuto abbandonare la mia condizione di fuggitivo, per diventare a tutti gli effetti un migrante.Haris uscì dalla tenda sorridente e prima di lasciarmi disse:
«Ah, un’ultima cosa, stiamo messi male a protezioni e distanziamento, ma questo lo vedrai ».
Una volta solo, come se fossi in una stanza d’albergo, mi guardai intorno cercando di carpire ogni segreto del mio alloggio, che però si presentava spoglio e privo di mistero. Come un cane, girai tra i letti per marcare il territorio, per sentirlo mio. Solo quando mi sentii a mio agio, tornai a sedermi. Tirai fuori dallo zainetto il telefono, sperando in una notifica, in un messaggio di Amaia… Lo sfondo rimase nero.
Spesso, soprattutto nel primo periodo del confinamento, mi chiamava quando era a letto. Vedevo il suo volto sorridere mentre si muoveva sotto le coperte, mi parlava piano, poi allargava l’inquadratura ed era nuda. L’iniziale sorpresa, condita da qualche risata, si trasformava in un rapido eccitamento da parte mia; la stuzzicavo, mentre cercavo di immaginarmi di toccarle il seno. Le parole diventavano sempre più sporche, man mano che la conversazione procedeva, i respiri più veloci e anche più profondi. La sua mano scendeva, così come la mia, e continuavamo a parlare dicendoci cosa avremmo fatto all’altro in quel momento, se fossimo stati insieme. Lei, con gli occhi chiusi, lo immaginava, io le chiedevo di tenere la camera vicino al suo sesso mentre si toccava. Il ricordo sempre fresco di quel momento vissuto di persona, unito ai suoi gemiti, faceva il resto. In poco tempo mi trovavo a svuotarmi sulla mano, e proprio in quel momento, quando ormai il mio eccitamento era calato, guardavo lo schermo e lo sentivo freddo; la persona era lontana come se fosse un video di qualche tempo prima, la sua voce veniva da un ricordo indefinito. Mi sentivo ridicolo quando lei, ancora eccitata, mi chiedeva di continuare, e lo facevo anche se avrei voluto spaccare il telefono o entrarci pur di toccarla. Quando poi tutto finiva, quando anche lei era soddisfatta, veniva avvolta dallo stesso freddo che io avevo percepito precedentemente. Eravamo ancora più soli, glielo leggevo negli occhi e mi faceva pena; e mi facevo pena, perché riuscivo a vedere me stesso nel vetro del telefono. Sentivo la mancanza di un abbraccio, di una carezza data sotto il caldo delle lenzuola sudate, invece adesso non avremmo potuto godere di nessun bacio, di nessun contatto reale tra i nostri occhi, solo un saluto con la mano, lei che si portava le gambe al petto, rannicchiandosi, poi il tasto rosso veniva schiacciato e mi riportava sullo sfondo del telefono. E non sapevo più niente di lei, fino alla chiamata successiva.
Paragrafo rimosso per concentrare l’apertura sul reale problema del protagonista e le relazioni familiari. Questa parentesi non serve qui, non ora.
Avevo lasciato la casa dei miei genitori da cinque anni. Non ero più tornato per il Natale, né per l’estate e, tantomeno, avevo in programma una visita a sorpresa. Volevo stare il più lontano possibile dal me stesso che avevo lasciato lì e che sapevo viveva ancora nei bar, nei palazzi e nelle facce della gente di quel paese.
Quando mi chiamò mia sorella, non mi preoccupai davvero, minimizzai. Avevo sentito le notizie che stavano circolando, ma continuavo a vivere serenamente la mia vita; dopotutto, non era la prima volta che i telegiornali interrompevano i programmi per dare notizie sconfortanti in edizione straordinaria. Mia sorella è sempre stata un tipo ansioso: non usciva mai di casa e aveva passato la giovinezza a preoccuparsi per l’opinione della gente, fino a diventare una vera bigotta. Aveva quasi quarant’anni e viveva ancora a casa con i miei: non se ne sarebbe mai andata.
Mi disse che papà stava male, aveva la febbre da una settimana e non voleva alzarsi dal divano. Non mi sembrava un comportamento diverso dal normale: non ricordavo mio padre come un uomo pieno di energie; il primo ricordo che ho di lui è proprio quello di un uomo in posizione supina davanti al televisore.
Mi chiese di tornare, era preoccupata. Dissi che non l’avrei fatto e di non farsi terrorizzare dalle notizie che stavano circolando: era solo un po’ di febbre.
Avevo deciso di rimanere a Est. Tutti gli altri, quelli del mio vecchio gruppo, avevano preso le loro strade disseminandosi per l’Europa, fu una fortuna della quale allora ero inconsapevole. In quel momento subii con impotenza le loro decisioni, ero certo che la nostra amicizia avrebbe sofferto la lontananza ma ciò che più mi terrorizzò fu la presa di coscienza che quel microcosmo felice che avevamo creato si stesse sgretolando; fin dall’inizio sulle nostre teste pendeva una data di scadenza che non avevo considerato, e io non ero ancora pronto a dire addio a quella serenità. Per questo reagii aggrappandomi all’unica cosa che non avrebbe potuto lasciarmi: la Romania.
Accettai un lavoro come traduttore in un’azienda tedesca a Timișoara: avrei dovuto controllare la grammatica, la sintassi dei contratti, le mail e tutto ciò che producevano di scritto, prima dell’invio in uno dei Paesi dell’Occidente. Lo stipendio era di poco superiore a quello della media nazionale, nulla di eccezionale considerando la misera paga percepita dai lavoratori rumeni.
È vero, ero rimasto anche per ragioni di cuore, quello c’entra sempre, ma anche lei era partita, tornando al suo Paese. Avrei voluto seguirla, ma ancora una volta al solo pensiero di tornare a Ovest mi bloccai. Avevo trovato il mio posto, non volevo lasciarlo, e non l’ho fatto neanche quando il mondo si è fermato.
Nessuno aveva idea di quanto sarebbe durato quel periodo. Il tempo di reazione è lento quando una cosa è inaspettata. Fu come ricevere una pugnalata alle spalle; non vedendo il coltello, non mi accorsi del dolore.
Quando, dopo aver ignorato le chiamate di mia sorella, mi decisi a rispondere, disse che avevano ricoverato mio padre in ospedale. Non poteva andare a fargli visita: riceveva una chiamata da lui o da parte dei dottori, un paio di volte a settimana. Ogni volta, sperava fosse mio padre a chiamare, così avrebbero potuto rincuorarsi sulle sue condizioni di salute ascoltando la sua voce e cercando di carpirne i tentennamenti, se mai ce ne fossero stati. Le riusciva difficile credere alle parole dei dottori. D’altronde, mi aveva detto che facevano lo stesso con tutte le famiglie che avevano i loro parenti ricoverati, e alcuni di questi poi erano morti.
Mi chiese nuovamente di partire, io presi tempo. Le dissi che l’avrei chiamata tutti i giorni e avrei risposto alle sue telefonate, ma non feci neanche questo. Spesso dimenticavo quello che stavano passando, dimenticavo mio padre e l’esistenza della mia famiglia. Come se l’affetto per loro fosse solo una questione di chilometri: più questi crescevano e minore era il mio interesse.
Dopo due settimane, ricevetti un suo messaggio: mio padre era grave, così la chiamai. Rimase fredda per tutta la conversazione, ma non era arrabbiata con me, sentivo che il suo disappunto per il mio disinteresse era sovrastato dal dolore per quello che stava passando nostro padre. Quando le dissi che sarei tornato a casa per qualche giorno il prima possibile, non mi aggredì per non averlo fatto prima, né mi derise. Mi spiegò lucidamente quello che stava succedendo: era tardi, non avrei potuto più raggiungerli, i voli in entrata erano stati cancellati, come in gran parte d’Europa, ormai. Mi consigliò di fare una cosa che non avevo mai fatto prima secondo lei: prendere le cose sul serio.
L’uomo che cadde dall’aereo, primo capitolo (versione definitiva)
di Cosimo Damato
Sono stato il primo occidentale ad arrivare al campo profughi gestito da Cookswithoutborders, in Bosnia. Il primo provvisto di regolare passaporto e documento di riconoscimento che aveva esigenza di passare la frontiera illegalmente. O almeno, questo è quello che disse Haris, il volontario con il quale ero entrato in contatto mesi prima, quando ancora cercavo di capire quanto fosse attuabile quel progetto. Appena mi vide, aprì le braccia per darmi il benvenuto.
«Eccoti qui finalmente, sei il primo».
Non era sorpreso, sapeva che prima o poi sarebbe arrivato quel momento, e infatti quasi godette quando mi vide, come se avesse scommesso con qualcuno che prima o poi sarebbero arrivati anche gli occidentali.
Mi portò in una tenda fatta teli di plastica, tenuta in piedi da mazze di legno che sembravano manici di scopa spezzati. Non era molto grande all’interno, ma lo era abbastanza da ospitare due materassi singoli attaccati tra loro, gettati a terra senza il sostegno di nessuna brandina. C’era un piccolo passaggio intorno al giaciglio. Non c’erano armadi per i vestiti, niente comodini per le lampade, niente lampade. Haris mi diede una pacca sulle spalle e mi invitò a riposarmi. Mentre mi sedevo e tastavo la morbidezza del materasso, mi spiegò che avrei avuto la possibilità di restare in quella tenda per tutto il tempo necessario; quel posto, diviso da una rete metallica dal campo vero e proprio, era riservato al personale del campo e, visto il mio aspetto, sarei potuto passare per uno di loro.
Durante il tragitto fino alla tenda, diedi un’occhiata disinteressata intorno. Forse per l’orario, o per il periodo, non percepii una grossa attività. Una sorta di capannone fatto di un materiale plastico, grande quanto un campo da tennis, stava al centro del perimetro recintato; ai lati, ma lontane dalla rete, c’erano altre tende come quella nella quale mi trovavo io, più una dozzina di bagni chimici, dei container con altri posti letto e una cisterna mobile.
«È potabile?», chiesi mentre la sorpassavamo.
«È l’unica che abbiamo».
La sterpaglia e l’erba della foresta vicina si estendevano fino all’interno del rifugio, ma la loro crescita veniva interrotta dal ripetuto passaggio delle scarpe, le quali, nei punti più trafficati, avevano creato dei corridoi tra l’erba alta: unico segno della vita all’interno del campo. Nella direzione opposta alla foresta, a chilometri di distanza, c’era la città: da lì arrivavano gli uomini, le donne, i bambini e gli anziani, con l’obiettivo di lasciare il Paese ed entrare in un altro. Al di là della foresta, infatti, c’era la frontiera.
Fui grato del fatto che Haris non mi avesse fatto domande, e mi avesse condotto direttamente in un posto nel quale avrei potuto riposare. Accennai un sorriso e annuii quando mi spiegò la faccenda del volontariato e dei privilegi che ne derivavano, in quel momento non mi importava e non capivo quali differenze ci fossero tra i due campi, avrei voluto solo dormire. Avrei pensato più tardi al fatto che avrei dovuto abbandonare la mia condizione di fuggitivo, per diventare a tutti gli effetti un migrante.
Haris uscì dalla tenda sorridente.
Una volta solo, come se fossi in una stanza d’albergo, mi guardai intorno cercando di carpire ogni segreto del mio alloggio, che però si presentava spoglio e privo di mistero. Come un cane, girai tra i letti per marcare il territorio, per sentirlo mio. Solo quando mi sentii a mio agio, tornai a sedermi. Tirai fuori dallo zainetto il telefono, sperando in una notifica, in un messaggio di Amaia… Lo sfondo rimase nero.
Avevo lasciato la casa dei miei genitori da cinque anni. Non ero più tornato per il Natale, né per l’estate e, tantomeno, avevo in programma una visita a sorpresa. Volevo stare il più lontano possibile dal me stesso che avevo lasciato lì e che sapevo viveva ancora nei bar, nei palazzi e nelle facce della gente di quel paese.
Quando mi chiamò mia sorella non mi preoccupai davvero, minimizzai. Avevo sentito le notizie che stavano circolando, ma continuavo a vivere serenamente la mia vita; dopotutto, non era la prima volta che i telegiornali interrompevano i programmi per dare notizie sconfortanti in edizione straordinaria. Mia sorella è sempre stata un tipo ansioso: non usciva mai di casa e aveva passato la giovinezza a preoccuparsi per l’opinione della gente, fino a diventare una vera bigotta. Aveva quasi quarant’anni e viveva ancora a casa con i miei: non se ne sarebbe mai andata.
Mi disse che papà stava male, aveva la febbre da una settimana e non voleva alzarsi dal divano. Non mi sembrava un comportamento diverso dal normale: non ricordavo mio padre come un uomo pieno di energie; il primo ricordo che ho di lui è proprio quello di un uomo in posizione supina davanti al televisore.
Mi chiese di tornare, era preoccupata. Dissi che non l’avrei fatto e di non farsi terrorizzare dalle notizie che stavano circolando: era solo un po’ di febbre.
Avevo deciso di rimanere a Est. Tutti gli altri, quelli del mio vecchio gruppo, avevano preso le loro strade disseminandosi per l’Europa, fu una fortuna della quale allora ero inconsapevole. In quel momento subii con impotenza le loro decisioni, ero certo che la nostra amicizia avrebbe sofferto la lontananza ma ciò che più mi terrorizzò fu la presa di coscienza che quel microcosmo felice che avevamo creato si stesse sgretolando; fin dall’inizio sulle nostre teste pendeva una data di scadenza che non avevo considerato, e io non ero ancora pronto a dire addio a quella serenità. Per questo reagii aggrappandomi all’unica cosa che non avrebbe potuto lasciarmi: la Romania.
Accettai un lavoro come traduttore in un’azienda tedesca a Timișoara: avrei dovuto controllare la grammatica, la sintassi dei contratti, le mail e tutto ciò che producevano di scritto, prima dell’invio in uno dei Paesi dell’Occidente. Lo stipendio era di poco superiore a quello della media nazionale, nulla di eccezionale considerando la misera paga percepita dai lavoratori rumeni.
È vero, ero rimasto anche per ragioni di cuore, quello c’entra sempre, ma anche lei era partita, tornando al suo Paese. Avrei voluto seguirla, ma ancora una volta al solo pensiero di tornare a Ovest mi bloccai. Avevo trovato il mio posto, non volevo lasciarlo, e non l’ho fatto neanche quando il mondo si è fermato.
Nessuno aveva idea di quanto sarebbe durato quel periodo. Il tempo di reazione è lento quando una cosa è inaspettata. Fu come ricevere una pugnalata alle spalle; non vedendo il coltello, non mi accorsi del dolore.
Quando, dopo aver ignorato le chiamate di mia sorella, mi decisi a rispondere, disse che avevano ricoverato mio padre in ospedale. Non poteva andare a fargli visita: riceveva una chiamata da lui o da parte dei dottori, un paio di volte a settimana. Ogni volta, sperava fosse mio padre a chiamare, così avrebbero potuto rincuorarsi sulle sue condizioni di salute ascoltando la sua voce. Mi chiese nuovamente di partire, io presi tempo. Le dissi che l’avrei chiamata tutti i giorni e avrei risposto alle sue telefonate, ma non feci neanche questo. Spesso dimenticavo quello che stavano passando, dimenticavo mio padre e l’esistenza della mia famiglia. Come se l’affetto per loro fosse solo una questione di chilometri: più questi crescevano e minore era il mio interesse.
Dopo due settimane, ricevetti un suo messaggio: mio padre era grave, così la chiamai. Rimase fredda per tutta la conversazione, ma non era arrabbiata con me, sentivo che il suo disappunto per il mio disinteresse era sovrastato dal dolore per quello che stava passando nostro padre. Quando le dissi che sarei tornato a casa per qualche giorno il prima possibile, non mi aggredì per non averlo fatto prima, né mi derise. Mi spiegò lucidamente quello che stava succedendo: era tardi, non avrei potuto più raggiungerli, i voli in entrata erano stati cancellati, come in gran parte d’Europa, ormai.
Mi consigliò di fare una cosa che, secondo lei, non avevo mai fatto prima: prendere le cose sul serio.
Cosimo Eligi Damato ha trent’anni, è pugliese e ha studiato storia e scienze sociali all’università degli studi di Bari “Aldo Moro”. Ha seguito un progetto di cooperazione internazionale nel 2018, che gli ha dato la possibilità di scoprire e innamorarsi dei Balcani.