A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ’21/’22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista, prima con le note di editing in chiaro e poi in versione definitiva. Questo è il primo, lo ha scritto Dario Landi e ha richiesto pochissimi interventi di micro-editing a cura dell’allieva editor Francesca Montagnaro.
La storia: Emilio, depresso e auto-recluso per l’abbandono da parte dell’amata, ha ordinato una spesa a domicilio che non arriva. Mentre attende di parlare con un operatore del call-center del supermercato e cerca di scrivere un racconto, scopre in casa sua effetti di azioni che non ricorda di aver compiuto. Al contempo sollevato che qualcuno – il suo inconscio o un fantasma – si stia prendendo cura di lui e, convinto di star impazzendo, decide di suicidarsi.
Assedio
di Dario Landi
What remains lay siege to my mind.
(Material, Thomas Heise)
«GNS, buongiorno. Uno dei nostri operatori le risponderà il prima poss—».
Dall’altra parte della casa si accende un rumore. La lavatrice. Emilio non si ricorda di averla programmata.
«Potrà collegarsi al nostro sito http://www.gns.eu con il codice che le abbiamo fornito».
Guarda il telefono. Nove minuti che è in linea. La lavatrice fa un giro, un altro. Emilio sente un clangore metallico. Una moneta nel cestello. Eppure è sicuro di aver controllato tutte le tasche.
«Good morning, GNS. An operator will take your call as soon as possible».
Emilio attraversa il salotto buio fino alla cucina. Apre il frigorifero e la luce gialla invade la stanza. Ficca la testa dentro. Mezzo yogurt, una carota floscia, una scatoletta di tonno. L’olio è colato giù per i ripiani fino al cassetto, vuoto, delle verdure. Odore di cipolla marcita. Cipolle, però, non ce ne sono. Immagina sia un ricordo. Lei ne era ghiotta.
«La chiamata sarà registrata».
Gli bruciano le orecchie. Tutto il giorno che ha le cuffie. La notte precedente si è addormentato con quelle addosso e una musica che non ricorda.
«Dovrà inserire il codice della spedizione e fornire i suoi recapiti, per cui consigliamo di tenere pronti—».
Se il corriere con la spesa non arriva entro domani mattina, non gli resta niente da mangiare. Richiude il frigo, la casa ridiventa buia. Neanche il gatto c’è più. Se l’è portato via lei, o se n’è andato. Pensa di aprire una finestra e chiamarlo, ma desiste. La lavatrice fa un altro giro, e sente ancora la moneta rimbalzare nel cestello. Emilio si inginocchia di fronte al vetro dello sportello.
«La invitiamo a rimanere in linea. Please, hang on».
Eccola là, da un euro. Prova a seguirne le ellissi col dito, ma poi la moneta si perde nel groviglio di tessuti fradici. Torna al computer.
La pagina lo fissa inquietante, col suo unico rigo macchiato di scrittura.
“Anna sente un ronzio lontano, come un’ape in un prato d’estate”.
Da quando se n’è andata non è più riuscito a scrivere mezza parola.
Scrive “Resta”. La guarda. Cancella. Scrive “Va”. Cancella. Si lascia scivolare sulla sedia, premendosi le mani sugli occhi. Le cuffie continuano a vomitargli nelle orecchie la voce registrata.
«Resti in linea per non perdere la priorità acquisita».
Si alza di nuovo. In bagno sale sulla bilancia. Settanta. Ha perso un altro chilo. Forse non dovrebbe preoccuparsi della spesa che non arriva.
«Please hang on, in order not to lose your priority».
Si siede di nuovo alla scrivania. Dopo il punto c’è una parola.
“Resta”.
E no, ricorda di averla cancellata. Eppure quella è lì. Prova ad aggiungere qualcosa dopo. “Ferma”.
No, cancella.
“Immobile”.
No.
«GNS, buongiorno. La preghiamo di rimanere in linea per non—».
“Immota”.
Cancella di nuovo. Ha mal di testa. Guarda l’orologio al muro. Le cinque e dodici minuti. A quell’ora lei si sarebbe fatta un tè, e un odore troppo dolce, vaniglia e agrumi, si sarebbe sparso per la casa. Avrebbe sentito il cucchiaino tintinnare contro il bordo della tazza e, nei giorni peggiori, avrebbero litigato per le gocce di tè sul piano della cucina. Ma il più delle volte avrebbe preso della carta e avrebbe asciugato senza dir niente.
«An operator will take your call as soon—».
Un rumore nell’altra stanza. Emilio si alza, si affaccia sulla porta. Forse è rientrato il gatto. No, le finestre sono chiuse, la porta anche. Gli sembra venisse dalla cucina. Accende la luce. La lavatrice continua a ruminare. Sul piano di legno accanto al frigo c’è qualcosa. Una, due, tre. Chiazze d’acqua fra il bollitore, spento, e la piantina di salvia, morta. No, attraverso di esse non si vede il colore chiaro del ripiano. Sono gocce di tè. Cerca di ricordare l’ultima volta che ne ha bevuto. C’era ancora lei. Gliene aveva offerto un sorso. Forse qualche goccia era caduta. Strappa un frammento di carta e le asciuga. Ora sono solo impressioni umide fra pori di cellulosa. Butta il fazzoletto nell’organico, tanto non c’è più lei a sgridarlo perché sbaglia la differenziata.
Legge la lista della spesa appesa al frigo.
“Tonno, insalata, yogurt, aceto, purè liofilizzato, crackers, limoni, surgelati”.
«GNS, buongiorno. La preghiamo di tenere pronto il numero della spedizione, in modo da velocizzare—».
Nel racconto c’è di nuovo una parola in più.
“Immobile”.
Adesso è sicuro di non averla scritta lui. Quante sono le probabilità che il gatto abbia camminato sulla tastiera componendo non solo una parola di senso compiuto, ma proprio quella che va bene in quel punto? Ora l’inizio della seconda fase recita “Resta immobile”.
«L’operatore le risponderà dall’Italia. Rimanga in linea per non perdere—».
“Resta immobile ad ascoltarlo”.
Si rende conto di aver scritto due parole. Scrivere e dimenticare. Un metodo funzionale. Non può disprezzare quello che crea, se non lo ricorda. Tiene le dita sospese sopra la tastiera. Sente la polvere pizzicargli i polpastrelli. Abbassa l’anulare sulla “N”, il mignolo “O”. Sta per spingere di nuovo sulla “N”. “Non”. Un altro rumore.
Si alza. A terra, davanti al frigorifero, c’è una penna. La raccoglie. Una bic blu, masticata sul fondo. Gliela aveva vista, pochi giorni prima che se ne andasse, incastrata sull’orecchio, seminascosta fra i capelli biondi.
Era seduta al tavolo di cucina e indossava un pullover rosso. Un filo scucito pencolava dalla manica sinistra sul polso magro. Si era tolta la penna dell’orecchio − i capelli erano ricaduti con grazia al loro posto − l’aveva mordicchiata un po’ e poi l’aveva avvicinata al foglio. Emilio era entrato nella stanza. Lei aveva finto di andare in bagno.
Ora quella penna è in terra davanti al frigorifero.
«GNS, ricordiamo che i nostri uffici sono aperti dalle otto e trenta alle tredici».
Si tira in piedi e vede che su ogni parola della lista della spesa è stata tirata una linea. È rimasta solo una parola non cancellata, in fondo alla lista, in uno stralcio di spazio.
“Miele”.
L’ultima volta che ne ha mangiato era dal suo ombelico. Dolce, ma quando gli era sceso alla base della lingua aveva sentito una punta acida. Per un attimo aveva pensato che avessero sbagliato a scegliere il castagno, ma poi si era reso conto che ci si era mischiata una goccia di sudore.
«Ai sensi di legge, la avvertiamo che la telefonata sarà registrata».
Il rollio della lavatrice lo nasconde mentre si masturba seduto sul water chiuso.
Si lava le mani e si guarda nello specchio. Si rimette le cuffie.
«Please hang on. An operator will take your call as soon as—».
Quando apre la porta vede un’ombra dall’altra parte della sala. La attraversa di corsa. Non c’è nessuno. Meglio così. Che imbarazzo se lo avessero sentito biasciare il suo nome nel momento del culmine.
Qualcuno ha cambiato le lenzuola. L’armadio è aperto e lo specchio fissato sull’anta gli mostra le occhiaie color cenere e il petto cadente. Si avvicina al letto. C’era solo un viticcio di lenzuola unte di sudore e intrise dello stesso odore denso che ora gli esce dai pantaloni. Si inginocchia e annusa. Quell’odore non c’è più. Ora sente solo un’ombra vaga del sole che ha asciugato quei panni.
Si risiede al computer.
«Resti in attesa, un operatore le risponderà il prima possibile».
“Non capisce”.
Ha scritto un’altra parola.
«Per non perdere la priorità acquisita».
Scrive una “S”. Sono tante le parole con la “S” che gli piacciono. “Silenzio”, “Struggente”, “Sempiterno”.
Altro giro per la casa. Nella lista della spesa c’è una voce in più.
“Cibo gatto”.
Non può averla scritto lui. È entrato qualcuno − i rumori che ha sentito prima − ma perché qualcuno…
«This conversation will be recorded in compliance with—».
… dovrebbe intrufolarsi in casa tua per ricordarti di comprare le crocchette per il gatto?
«In order not to lose your priority».
Sedici minuti e trentotto secondi. Fuori c’era ancora uno scampolo di luce quando ha composto il numero, ora vede solo l’oscurità consueta.
«Lei è il numero undici. Rimanga in attesa per non perd—».
Perché aggiornare la lista di una spesa già fatta?
Un riflesso nel vetro alle sue spalle. Si volta di scatto, non c’è nessuno. Per un attimo immagina che lei sia tornata. Forse deve prendere qualcosa che ha dimenticato, anche se nell’ultimo messaggio giurava di aver portato via tutto.
«Lei è il numero dieci. You are number ten in queue. Rimanga in linea».
Sta impazzendo. Sta impazzendo, e il poco o niente che resta di lei gli consuma il cervello.
Di nuovo al computer. Dopo la “S” c’è una “E”. “Se”. E poi altro.
“Se dal mondo o da dentro di lei”.
Cerca su Internet “parte del cervello dedicata alla memoria”. Trova “ippocampo”. Memorie esplicite, trasformazione della memoria da breve a lungo termine, navigazione spaziale. Ecco cosa si sta polverizzando nel suo cranio. Ippocampo. Si sfarina ed esce da naso, orecchie, bocca. Sente sapore di fiori morti sotto la lingua. Morire. Non è una cattiva idea. Morire dimenticando. Ancora meglio.
«Lei è il numero nove, rimanga in linea per non perdere la priorità acquisita. La preghiamo di tenere a portata di mano il codice identificativo della spedizione».
Nove persone. Nove che lo separano dal fare ciò che ha appena deciso. In bagno svita il tappo del dentifricio e lo lancia verso il soffitto. Il tappo scivola sopra la trave e cade dall’altra parte. C’è spazio.
«Lei è il numero otto, resti in linea per—».
Frugando nella polvere del ripostiglio trova i cavi elettrici per la macchina. Si siede sul divano e li annoda. Rientra in bagno e solleva la testa verso la trave, ma il suo sguardo incontra qualcosa.
«GNS, buongiorno. Grazie per aver scelto i nostri servizi. Lei è il numero sette, rimanga in linea per non—».
Lo sportello della lavatrice è aperto, c’è odore di sapone e i panni − mutande, calzini, magliette − sono stesi sopra la vasca. Il suo cervello monco è lento a reagire. Lancia i cavi oltre la trave e il cappio ricade dall’altra parte con uno schiocco secco, oscillando contro la geometria verde della parete. Tasta un paio di jeans, un calzino. Bagnati. Nel cestello c’è ancora il foglietto acchiappa-colore accartocciato. Si guarda attorno. Un riflesso si muove. Finestra, specchio, vetro della lavatrice. Gli occhi, seguendolo, finiscono sul vano della porta.
È sicuro di averla chiusa, ma è aperta.
«Lei è il numero sei».
Emilio attraversa il salotto, incerto. Fuori si è alzato il vento. Sibila, o forse è il pianto di un gatto. La luce alla scrivania è accesa.
«Lei è il numero cinque. You are number five».
I numeri hanno cominciato a scorrere. Persone con problemi semplici. Parmigiano invece del grana, smacchiatore della marca sbagliata, fragole muffite. Lui no, lui ha un estraneo in casa.
La pagina non ha più spazi bianchi. Il racconto adesso prosegue in un formicaio di lettere fino a fine pagina.
“Si sorprende che il cielo sia ancora al suo posto”.
Non ricorda da quanto non terminava un racconto.
Lo intitola “Anna”, come lei.
«Lei è il numero quattro».
Salva e torna in bagno. Vede il nero nelle fessure delle piastrelle, le incrostazioni nella doccia, i preservativi inutilizzati, sente i cattivi odori. Morte e peli nel bidet, ma che importa. Ora che ha pure finito un racconto può andarsene tranquillo. Posiziona lo sgabello sotto la trave. Si toglie la felpa e la butta a terra. Testa che i cavi reggano. Si toglie scarpe e calzini. Lo sgabello di metallo è freddo ai piedi.
«You are number three, please keep at hand your purchase’s ID».
Un grattare sulla porta. Scende dallo sgabello, la spalanca. Un gatto rossiccio, occhi verdi, la zampa destra sollevata. Miagola. Si fissano, il gatto inclina la testa. Richiude la porta, sale sullo sgabello. Il gatto però piagnucola e spinge sulla porta. Emilio chiude gli occhi.
«GNS, buongiorno. Lei è il numero due».
Il legno geme sotto i piccoli colpi della zampa e il pianto si fa disperato. La gomma dei cavi gli tira sul collo. Un crepitio. Apre gli occhi. Dalla porta socchiusa spunta la zampetta. Sta per scendere e richiuderla, ma l’animale la spalanca con una spinta. Attraverso porta, salotto, porta, vede lo specchio dell’armadio. C’è riflessa lei. Solo un’immagine, nella stanza non c’è nessuno. Un’ombra senza corpo. Indossa solo un paio di mutandine azzurre con un fiocchetto bianco e si torce, cercando di guardarsi una spalla. Emilio si volta. Le mutandine azzurre col fiocco bianco dondolano fra i panni stesi ad asciugare. Guarda lo specchio. L’immagine di lei è sparita.
Un fantasma. Un fantasma ha scritto la sua lista della spesa, un fantasma ha steso i suoi panni, un fantasma ha scritto il suo racconto.
Emilio saggia con le dita dei piedi il bordo dello sgabello. Occhi chiusi, respiro profondo, stringe i pugni.
Aspetta il numero uno per poter essere uno zero.
«GNS, buongiorno. Lei è il numero uno. Resti in linea per—».
Silenzio.
«Buonasera, sono Anna. Come posso aiutarla?»
Dario Landi nasce nel dicembre 1981 a Borgo San Lorenzo, Firenze. Ha una laurea in scienze della formazione, un master in scrittura dei prodotti audiovisivi, ha lavorato per sette anni nel reparto fritti di un fast food e per altri tre come portiere notturno, esperienza della quale ha approfittato per scrivere, nelle lunghe veglie, un paio di romanzi. Uno di questi, Il Sosia, sarà prossimamente pubblicato con Scatole Parlanti.