editing, rivista
Lascia un commento

Bagno Ventisette

A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ’21/’22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista, prima con le note di editing in chiaro e poi in versione definitiva. Questo è il secondo, lo ha scritto Luca Alessandrini e ha richiesto un intervento di editing da parte dell’allieva editor Silvia Palazzoli che lavorasse soprattutto sul linguaggio, sul rimuovere alcune parti eccessivamente “liriche” e non in linea con il tono del racconto, e aiutasse l’autore a sviluppare meglio il finale.


La storia: il bagnino Orazio s’invaghisce di una bella milanese – con bimbo al seguito. I bagnanti spiano le loro manovre e il bagno ventisette è percorso dal brusio dei pettegolezzi. L’occasione è fornita dal marito di lei che viene a prendere il piccolo Edoardo per portarlo a Milano con sé. I due allora si danno appuntamento per la serata; nel pomeriggio Orazio incontra il bimbo che, prima di partire, gli confessa di quanto si senta triste a causa dei litigi in famiglia. Giunta l’ora di chiusura il bagnino è trattenuto da Moretti, lo “sciamano” del Bagno Ventisette, il quale gli racconta una strana e triste storia che accompagnerà e guiderà i passi di Orazio lungo la strada che lo porta al suo appuntamento. 


Bagno Ventisette

di Luca Alessandrini

Dissero che quella fu l’estate più calda della storia, tanto che qualcuno cominciò a sospettare che la ragazzina svedese – quella Iceberg o come ostia si chiamava -, avesse ragione. O che portasse sfiga.

Di sicuro il mare non era mai stato così caldo e quel pataca di Moretti raccontava ai turisti di aver visto i granchi rincorrere l’uomo dei ghiaccioli.  Moretti era lo sciamano del Bagno Ventisette – come tutti gli stabilimenti balneari somigliante a una tribù -, ed era così vecchio che, per dargli un’età, l’unica era tagliargli una gamba e contare i cerchi. Il suo posto era sullo sgabello accanto alla cabina del bagnino – ci stava fin da prima che quella fosse costruita -, e da lì sorvegliava i flussi delle maree, predicendo burrasca e relazioni amorose con la chiaroveggenza di una sibilla. Sapeva tutto di calcio, filosofia e cabala – che in fondo sono la stessa cosa -, e a volte, scartavetrando i sogni che al mattino lo lasciavano col cuore gonfio di una nostalgia inspiegabile, scriveva poesie.

Il capotribù, abbronzato e silenzioso come un apache, era il bagnino Orazio. Era stato appena lasciato dalla moglie, una complicata, professoressa all’università – dicevano si fosse innamorata perché lui a letto era un diavolo, ma per il resto oltre la Gazzetta non andava. In più, secondo le malelingue, quando la moglie era in facoltà, nel loro appartamento c’era un via vai di turiste da fare invidia ai negozi del centro.

Orazio comandava due fidi guerrieri, sedicenni borchiati e tatuati che in cambio di qualche euro l’ora aprivano lettini e storie d’amore con la stessa disinvoltura.

C’era infine il Gran Consiglio degli Anziani, perennemente riunito sotto l’ombrellone per discutere del governo o delle sise della tugnina appena arrivata.

Le voci cominciarono alle dieci del mattino quando tutti videro il bimbo tosato come Ronaldo, in mano un cono da dieci euro, incocciare nella pianella. Il gelato si era piantato a un palmo dal cumènda steso sulla salvietta della pensione Miranda e il bagnino Orazio era accorso per far su il moccioso. Trepidanti, le mamme dell’arenile l’avevano visto prenderlo in braccio.

«Ohi, ti sei fatto male?».

Il bimbo aveva fatto sì con la testa e Orazio s’era accorto con orrore del filo di moccio colatogli sulla spalla.

«Se smetti di piangere te ne prendo un altro, va bene?»

Tra gli sguardi di approvazione generale i due erano tornati dal bar con un cono nuovo di zecca; poi la gente aveva sentito il bagnino chiedere: «Di’, ma la tua mamma dov’è?»

La manina aveva fatto un gesto che andava da Marina centro al porto canale.

«Vabbè, fammi strada», messolo giù Orazio l’aveva seguito fino a un ombrellone che non era neppure il suo. I colori dicevano Bagno Ventotto.

Di quel fetente di Devis…

Il nano l’aveva trascinato in pieno territorio nemico – a Marina tutti sapevano della rivalità che amareggiava l’esistenza di Orazio da una quindicina d’anni almeno.

D’improvviso gli occhi del bimbo s’erano illuminati.

«Mammahhh!».

L’urlo aveva riscosso dal sopore una famiglia di francesi che lo aveva mandato a cagare in un tripudio di erre mosce. Orazio stava sulle spine: lo strepito poteva attirare il fetente.

A quel richiamo la donna si era alzata stagliandosi contro il sole obliquo e il bagnino aveva deglutito così forte che il carlino della signora Bezzi gli aveva ringhiato. Dopo aver ascoltato il resoconto del pargolo lei aveva allungato una mano.

«Grazie. È stato molto gentile da parte sua, signor… ?».

«Orazio. Gestisco il Bagno Ventisette, qui accanto».

A quel punto la donna aveva sbattuto le ciglia così forte che a Orazio era sembrato di sentire lo spostamento d’aria. I vicini di ombrellone li avevano ascoltati: un quarto d’ora fitto di chiacchiere durante le quali lei, parlando del figlio maldestro, s’era informata sullo stato civile di Orazio il quale, con nonchalance, aveva finito per chiederle del marito rimasto a Milano a badare la fabbrichetta. Ottenuta l’informazione il bagnino era stato visto congedarsi con una camminata alla John Travolta.


Che Orazio fosse in caccia in capo a un minuto lo sapevano fino alla spiaggia libera, ma passò comunque un altro giorno prima che i due si incontrassero di nuovo – la saggezza oriental-romagnola del bagnino gli imponeva di sedersi in riva al mare e aspettare il passaggio della milanese. E magari del cadavere di Devis.

Fu proprio sulla sua mitica seggiola rossa, mentre succhiava una granita, che Orazio sentì di nuovo la vocina metallica.

«È là, mamma! Guarda!».

Girandosi l’aveva sorpresa che faceva cenno di tacere al bimbo. Poi lei s’era avvicinata.

«Salve. Edoardo mi mostrava dov’è caduto».

Il tam tam di radio spiaggia registrava ogni mossa: nei giorni seguenti non si sarebbe parlato d’altro.

«Ebbràvo il burdlàz! Ti andrebbe un cono?».

«Sì!».

 «Toh, e fai una partita a flipper», Orazio aveva allungato una moneta al piccolo, che era corso via impanando di sabbia un tedesco. I due erano rimasti soli, sorvegliati dalla gente che fingeva di dormire.

La donna s’era ravviata i capelli, fissandolo. «Ma lo sa che non fa che parlare di lei? Non è mai successo con nessuno».

«E dammi del tu, dai… ».

Sotto l’ombrellone settantadue i coniugi Valdifiori s’erano scambiati un cenno d’intesa. In seguito i due piccioncini avevano abbassato la voce, cosicché i resoconti appaiono confusi e contrastanti; ma su una cosa tutti concordavano: a un certo punto Orazio l’aveva guardata dritto negli occhi dicendo qualcosa tipo: «Ma te sei felice?».

Lei allora s’era messa a frugare la sabbia con le dita dei piedi e per un attimo era sembrata sul punto di piangere. Pare che allora Orazio le avesse toccato una spalla, ma quella era scivolata via dalla presa.

Lo si era visto passarsi la mano sul collo sudato. «Non volevo essere invadente», sembrava avesse detto. «Non sopporto di vedere le persone tristi, tutto qui». Poi si era allontanato, ma dopo qualche passo la mano di lei gli aveva toccato il braccio.

«Scusa, sto passando un brutto momento», si era lasciata sfuggire, prima che Orazio le indicasse le seggiole in finto bambù del bar.

Ignari di quanti li stavano osservando i due erano rimasti seduti a lungo, e per tutto il tempo il bagnino aveva finto di non vedere i clienti che lo cercavano.

Il cameriere aveva sentito la donna lamentarsi che nel pomeriggio il marito sarebbe passato a prendere il figliolo per portarselo a Milano – sembrava proprio che quello avesse scelto un brutto momento, dal tono di lei. Poi l’unico suono era stato il frastuono del flipper.

Prima che l’ultima biglia di Edoardo finisse in buca, Orazio s’era deciso a chiederle: «Dov’è che stai?».

Lei aveva mollato la cannuccia per sussurrare:

«Conosci la villetta in via Mazzini che fa angolo con la ferrovia?».

L’aveva detto così piano che il pizzaiolo s’era dovuto sporgere e aveva poggiato la mano su una margherita bollente.

«I miei ci abitano vicino», era riuscito a rispondere il bagnino, prima che Edoardo ricomparisse.

Sotto la lente d’ingrandimento dell’intera spiaggia Orazio era sembrato friggere d’impazienza. Sebbene non si fosse accorto dei mormorii, l’inquietudine dell’arenile lo aveva contagiato; in più pareva che i clienti lo facessero apposta: la Tiraferri aveva pestato una tracina e le aveva dovuto cacciare il piede nell’acqua bollente mentre il geometra Caruso continuava a rinfacciargli le alghe come se fosse lui a spargerle col moscone. Poi c’erano i due inglesi ciucchi che giocavano a rugby nell’acqua bassa, schizzando tutti nel giro di un chilometro. Quando erano stati sul punto di tritare una famiglia intera, Orazio s’era deciso ad intervenire.

«Ohe’ capo, ohi!».

Il più grosso dei due aveva continuato a correre col pallone ficcato sottobraccio, così lui gli si era piantato davanti. Dalla riva avevano visto l’inglese fermarsi e considerare le dimensioni del bagnino.

«Non si può giocare con quel coso. Proibito. Verboten, danger, understand?».

Per tutta risposta l’altro s’era esibito in un bel rutto birroso ed era ripartito ma, sotto gli sguardi della folla, Orazio l’aveva placcato con lo stile impeccabile di un All Black. Erano riemersi dalla spuma tossendo e il tipo aveva tentato un cazzotto, prontamente schivato e ricambiato: un montante allo stomaco, appena sopra le birre che quello si portava appresso. Poi Orazio l’aveva tirato su rianimandolo a calci nel culo. Annusata la faccenda il compare aveva messo via il pallone. 

Sulla battigia s’era formato un capannello; tra loro c’era un bimbo che saltava e strepitava più di tutti.

Edoardo. Senza la mamma.

«Ciao Burdlaz».

«Pam! Sbam!», il bimbo faceva andare le braccia.

Orazio s’era accucciato per fermargliele. «Fare a botte non va mica bene».

«Però l’hai menato».

«Giocavamo. Di’, ma non dovevi andare dal babbo?».

«Mi passa a prendere fra un po’».

«Sei contento, eh?».

Il bimbo aveva annuito, ma gli occhi gli si erano inumiditi.

«Ehi… che c’è?».

Silenzio.

«Non me lo dici?».

«Una volta il mio papà ha pianto».

«Beh, anche i grandi… ».

«Litiga con la mamma».

«Te l’ha detto lui o li hai sentiti te?».

Edoardo era rimasto zitto e un lacrimone era rotolato sulla sabbia.

«Guarda che anche i grandi bisticciano come ragazzini, ma poi fanno pace».

Sollevato, il bimbo aveva calciato un mucchietto di sabbia. «Te piangi?».

«Certo, c’è mica da vergognarsi! Guarda, sono sicuro che tuo babbo è in gamba, e che lui e tua mamma ti vogliono bene».

Dopo averci pensato su, Edoardo gli aveva mollato un bacio completo di candela sulla guancia. Ignaro del brusio che lo circondava, Orazio l’aveva guardato correre verso il Bagno Devis.

Finalmente il sole s’era messo di sbieco tingendo le onde di pervinca. Tutti erano andati a mangiare e l’eco dei pettegolezzi aveva ceduto il passo al rumore di posate.

Chiudendo gli ultimi ombrelloni Orazio s’era accorto dei due stesi sul moscone del salvataggio a limonare ma non se l’era sentita di mandarli via: l’amore era nell’aria quella sera e tutti dovevano assaggiarne un poco. Prima di rientrare nella cabina aveva sbattuto le ciabatte e a quel rumore Moretti s’era svegliato.

«È già ora?», aveva detto.

«Già? Non ne posso più».

Il vecchio l’aveva squadrato. «Son tre volte che spazzi la passerella. E ti sei dimenticato le chiavi del lucchetto… ».

«Sono stanco».

«È il garbino: a volte stanca, altre volte fa diventare birichini».

Il bagnino aveva posato la ramazza.  «Di’, ma te non vai a casa?»

«Resto un altro po’, che mi è tornata in mente una roba di quand’ero piccolo».

Orazio s’era provato a immaginare Moretti bambino, senza riuscirci; nel mentre l’altro s’era schiarito la voce.

«C’era ‘sto Nanni, andavamo a scuola insieme… beh, lui c’aveva una coppia di gazze».

«Gli uccelli?».

«Sì, il padre le aveva trovate nel nido e se l’era portate a casa. Io e Nanni stavamo sempre a guardare che le imboccava», aveva sorriso Moretti, come se le vedesse davanti a sé.

«Quelle crescono e il babbo di Nanni le addomestica; avevano imparato dei giochi che noi bambini diventavamo matti. Le gazze sono più intelligenti dei cani, lo sapevi?».

Malgrado non vedesse l’ora di farsi una doccia per scappare in via Mazzini, il bagnino aveva preso una seggiola.

«Poi le gazze fecero delle uova e nacque un piccolo. Ero così felice… credevo che Nanni l’avrebbe dato a me, capisci?».

«E invece?».

«Suo babbo s’era messo d’accordo col farmacista: appena svezzato glielo pagava e se lo prendeva lui. Allora io ho fatto una brutta cosa», il vecchio aveva sospirato, quasi che quella cosa ce l’avesse ancora incastrata in gola.

«Sono andato nella cantina dove tenevano le gazze e ho preso su la femmina. Me la sono portata via.».

«Os-cia!».

«L’ho nascosta nel capanno del ciabattino, che tanto era morto il mese prima. Poi sono andato a prenderle da mangiare e quando sono tornato ho visto il gatto.».

Merda, aveva pensato Orazio.

«È saltato fuori dalla finestra del capanno, un gatto cieco da un occhio. Per terra c’erano delle penne», Moretti si era soffiato il naso, prima di continuare. «Mi venne la febbre, e quando tornai a scuola Nanni disse che il piccolo era morto. Qualche tempo dopo anche il maschio smise di mangiare.».

«Brutta storia», disse il bagnino.

«Già, da quel giorno ci penso sempre quando sto per fare una pataccata».

Orazio era rimasto zitto finché il vecchio non s’era voltato a fissarlo.

«Ohi, c’è qualcosa che vuoi dirmi?».

«Io a te? No, è solo per le voci che giravano oggi. Sai, le chiacchiere somigliano al garbino: sono fastidiose».

«Voci eh? E che dicevano?».

«Ma niente, lo sai com’è la gente che spettegola… vede sempre e solo il peggio.».

«Cioè?».

«Tipo che appena uno si mette a giocare con un bocia quelli pensano subito che è per via della sua bella mamma… ».

Orazio s’era alzato, a disagio. «Lascia che parlino, a me non danno fastidio».

Di nuovo erano rimasti in silenzio, poi il bagnino aveva fatto su la sua roba in fretta, impaziente.

Dieci meno cinque. Nessuno in giro, giocava l’Italia e le mamme erano tutte al passeggio.

Via Cavour, via Giolitti, Viale Verdi… l’avevano visto infilare le traverse che si intersecavano come fili di un’immensa ragnatela, mentre l’interregionale passava sferragliando.

Di fronte al cancello socchiuso Orazio aveva sorriso. I gradini erano sette – lo si era visto farli con tre falcate ansiose. Di sicuro doveva essere passato un bel po’ dall’ultima volta che lui…

Campanello. Dindòn.

I suoi passi. La voglia di vederla che aumentava.

La maniglia s’era abbassata lasciandola apparire.

«Orazio!».

«Ciao Ma’!», il bagnino aveva abbracciato la donnina tutta storta, odorosa di violetta e ragù.

«Come mai ‘sta improvvisata?».

«Non c’avevo niente da fare», lo si era sentito rispondere. Poi la porta si era richiusa, lasciando le voci fuori. Finalmente mute. 

C’è burrasca, e a guardarlo dal terrazzo sembra che il mare arrivi fin sui tetti delle cabine.

Moretti si è seduto pensando all’immondizia che troveranno domani a riva, chiedendosi se anche le bugie a fin di bene finiscono per tornare indietro. Poi ha sospirato, abbandonandosi contro lo schienale, e il gatto gli è saltato sulle ginocchia, guardandolo col suo unico occhio come per rassicurarlo.


Luca Alessandrini è nato a Rimini e grazie al concorso letterario indetto dalla casa editrice “Il Cerchio” è stato pubblicato per due anni consecutivi all’interno di due antologie di racconti. Nel 2020 ha vinto il concorso “Bref Cubia”, mentre nel 2021 si è classificato terzo. Poi ha pubblicato con le riviste Blam, Il paradiso degli orchi, Tremila battute, Split, Voce del Verbo, Sguardindiretti, Narrandom, Risme, Carie, Quaerere, Crack, l’Irrequieto e Formicaleone.


Lascia un commento