A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ‘21/‘22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista. Questo è il settimo, lo ha scritto Rosaria Ciano, e ha richiesto un intervento di editing da parte delle allieve editor Arianna Nozza e Alessia Vecchi e della redazione che aiutasse l’autrice a far muovere i personaggi in modo coerente rispetto ai dialoghi e ai pensieri in un crescendo per aumentare la tensione, ridurre e alternare i flashback in modo funzionale al racconto.
La storia: Marianna è fuggita da Lorenzo e si è rifatta una vita in un paese lontano insieme a suo figlio, Danilo. Una sera rientrando dal lavoro si ritrova Lorenzo davanti a casa. Ripiomba nell’incubo da cui credeva di essere fuggita, non riesce a impedirgli di entrare in casa. I ricordi e la paura l’assalgono, ma presto lasciano il posto alla volontà di non cedere e di non vanificare i sacrifici affrontati.
Black out
di Rosaria Ciano
Per strada, illuminata solo dalla luce fioca dei lampioni, non c’era nessuno. D’inverno era sempre così. La strada non aveva negozi, solo villette, alcune sfitte, altre aggregate e riconvertite in casa di cura. Aveva scelto quel quartiere perché aveva bisogno di tranquillità, anzi: solitudine.
Era stata una giornata dura e desiderava solo arrivare a casa per immergersi nell’acqua profumata di un bagno caldo. Avrebbe approfittato dell’assenza di Danilo, ospite quella sera di un compagno di scuola. Il pensiero di suo figlio le strappò un sorriso.
Accelerò il passo. Aveva fretta di arrivare, buttare all’aria i vestiti e immergersi in vasca e stare a mollo tutto il tempo che voleva, come ultimamente non le era capitato di poter fare.
Passò accanto a un ospizio, il profumo del ragù le ricordò che aveva mangiato solo un po’ di frutta a mezzogiorno e bevuto un caffè di troppo. Affrettò ancora il passo. Era quasi a casa, altre due villette, il tratto di terreno incolto e sarebbe arrivata.
All’improvviso la strada già poco illuminata piombò nel buio.
Marianna si bloccò. Una serie di allarmi iniziò a suonare all’unisono. Si guardò intorno. Solo buio. Cercò di orientarsi, ma non vedeva nulla. Aspettò che gli occhi si abituassero all’oscurità: in lontananza iniziava a vedere piccole luci di candele accendersi nelle case. Fece qualche altro passo. Una sagoma nera le si parò davanti. Le luci si riaccesero. Sobbalzò: era solo uno dei tanti alberi di cui era disseminato il marciapiede.
Il blackout era stato breve, forse dovuto a qualche guasto o, più probabilmente al maltempo che si stava preannunciando. Accelerò il passo, attraversò il tratto di strada deserta, un pezzo di terra incolta, segnato dai vecchi pilastri di una costruzione mai portata a termine, e arrivò al cancello di casa. Aprì, attraversò il vialetto, armeggiò come sempre con la serratura difettosa ed entrò. Accese le luci dell’ingresso che, dopo nemmeno un secondo, si spensero. “Ci mancava il blackout! Fanculo”. Si voltò e, attraverso la porta ancora aperta, vide la strada illuminata e le case di fronte con le luci accese. Uscì sul portico. Goccioloni iniziavano a cadere. Neanche le villette accanto avevano problemi di corrente, era solo la sua a essere al buio. Ferma sull’uscio si domandò a chi chiedere aiuto a quell’ora. Fece per rientrare in casa, quando una mano le si posò sulle spalle. Si girò di scatto e si ritrovò a fissare il volto di suo marito.
«È saltata la corrente», esordì lui entrando in casa senza attendere risposta. Si diresse verso il contatore. Si aiutava con la luce del telefonino. «È il salvavita», spiegò alzando la levetta.
La luce illuminò l’atrio. Marianna non vi badò. Ferma sull’uscio era impegnata a escogitare una scusa per non entrare in casa.
«Che fai qui?».
«Ho bisogno di parlarti».
«Mi sono trasferita da poco… La casa è sottosopra», tentennò. «Andiamo al bar? Ce n’è uno qua dietro», propose, fingendo una noncuranza che sapeva di non avere, pur di non restare da sola con lui.
«Non credo sia possibile», rispose lui guardando fuori. Una saetta illuminò il cielo, mentre l’acqua prese a cadere con violenza.
Marianna fu costretta a ripararsi in casa. Chiuse la porta alle spalle e fece un cenno con la mano verso una stanza, dove un divano di seconda mano, una poltrona e una cristalliera cercavano di dare un po’ di calore alla casa ancora semivuota. Accese l’interruttore della luce ed entrò. Lorenzo la seguì. Lui si sedette sulla punta del divano, non sembrava a suo agio e a lei questo fece piacere, ma non lasciò che nessuna emozione trasparisse.
«Non so da dove cominciare. No, ti prego», esclamò tendendo la mano destra, sollevata, verso di lei per smorzare sul nascere qualsiasi replica, «lo so che ho sbagliato. Hai fatto bene ad andare via. Ma dov’è?» chiese, come se solo in quel momento avesse realizzato che Danilo non era lì con loro.
«È da un compagno di scuola, tra poco lo accompagneranno», rispose calma Marianna. Ci teneva a fargli credere che non sarebbe rimasta sola per tutta la sera, che presto sarebbe arrivata gente.
«Mi fa piacere vederlo», disse lui sorridendo.
«Non so se è il caso, non ti aspetta. Forse dovrei prepararlo, magari è meglio se ritorni un’altra volta».
Lorenzo nemmeno ascoltò la sua risposta. «Mi siete mancati», stava dicendo.
Il corpo di Marianna iniziò a formicolare e la mente scivolò nel passato.
«Ti sono mancato?», le aveva sussurrato all’orecchio. Il fiato caldo sul collo, una mano che l’aveva spinta dentro e aveva chiuso la porta.
Aveva iniziato involontariamente a tremare, si era morsa il labbro per non rispondere, temendo di balbettare.
Lorenzo con una mano l’aveva tenuta ferma per il collo e spinta contro il muro, mentre con l’altra le aveva tappato la bocca impedendole di urlare. Come se lei avesse potuto avere la forza di farlo.
Negli occhi una luce perfida, quella che aveva quando gli venivano le crisi. Aveva avvicinato le labbra alle sue, lei istintivamente aveva ritratto la testa, ma non era riuscita a spostarla indietro: la mano che le stringeva la nuca glielo impediva.
Le aveva leccato le labbra, lei le aveva serrate, e la lingua di lui era salita alla guancia fino a fermarsi sul lobo dell’orecchio destro che aveva iniziato succhiare. «Lo so che hai una voglia matta. Lo so che ti piace». Lei non aveva risposto: l’odore di alcool che emanava la disgustava, non era riuscita a reprimere una smorfia di fastidio e il pugno allo stomaco era arrivato all’improvviso, lasciandola senza respiro. Si era piegata in due cercando di non cadere. Questa volta no, questa volta no, si ripeteva nella mente ricordando i giorni all’ospedale.
Non lo aveva denunciato. Era caduta dal tavolo della cucina su cui stupidamente era salita per pulire i mobili alti. Si era sporta un po’ troppo. Che imprudenza.
La mattina dopo, mentre Danilo era a scuola, la collera l’aveva assalita così forte da farle sentire l’urgenza di fracassare qualcosa. Aveva preso una bottiglia e l’aveva scagliata a terra. Una scheggia di vetro era rimbalzata e aveva rischiato di finirle negli occhi. Aveva un figlio: non poteva offrirgli solo la sua delusione. A volte si sorprendeva a guardarlo, chiedendosi che tipo di uomo sarebbe diventato e quanto potesse aver inciso su di lui quell’atmosfera. Sarebbe dovuta andar via al primo schiaffo.
«Non è il solito modo di dire», le stava dicendo Lorenzo. «Lo so, non ho diritto di parlare, e tu hai tutte le ragioni per non volermi qui. Non sono venuto per litigare, e nemmeno per riportarti a casa. So che sei scappata per colpa mia».
«Cosa vuoi?».
«Sono venuto a chiederti scusa, a te e a Danilo. Era un brutto periodo. Avevo perso il lavoro… Mi spiace…».
Quante volte glielo aveva già sentito dire?
«Danilo. Come sta?».
«Bene», rispose lapidaria, contenta che il figlio non fosse lì quella sera. La sua presenza la rendeva debole: quante notti aveva passato in bianco vedendolo crescere senza padre.
«Lui non c’entrava però. Non dovevi portarmelo via….».
Il ricordo di Danilo avvinghiato a lei che gridava contro il padre le strinse il cuore.
«Devi ammettere che, io, davanti a lui, non ho mai alzato una mano».
Da quella volta, era vero, lui non l’aveva più picchiata davanti al bambino. Aspettava che fosse fuori casa.
Lo fissò torva, lui sembrò non accorgersene.
«Non hai una foto?» le stava chiedendo. «Sarà un giovanotto ormai… Non vederlo crescere, non potergli stare accanto, mi è pesato».
«Tra poco sarà qui e vedrai tu stesso quant’è cresciuto», gli rispose, cercando di guadagnare tempo. Non aveva intenzione di scappare di nuovo e oltretutto non poteva. Aveva un lavoro sicuro. Danilo andava bene a scuola, aveva un giro di amicizie, una fidanzatina… e lei non voleva dover fuggire di nuovo.
Un odio feroce l’assalì. Marianna si mosse sulla poltrona. Non voleva ascoltarlo, non le interessavano le sue giustificazioni.
«Come hai fatto a trovarmi?».
«Un investigatore, ma non temere. Non sono qui a pretendere nulla da te», le rispose con voce rassicurante.
Represse a fatica una risata amara. «Allora vattene, perché ciò che voglio è che tu stia lontano da me e da Danilo».
Un sospiro uscì dalle labbra di Lorenzo.
«Vedi io, io ho capito i miei errori…».
Non gli lasciò terminare la frase.
«Come facevi a sapere dove era il contatore della luce?».
«In genere è nell’ingresso e così ho pensato che anche questa… Ma cosa ti viene in mente! Non sono qui per farti male», le disse guardandola negli occhi. «Ti chiedo solo di ascoltarmi e poi andrò via, se vuoi».
«Ma io non voglio ascoltarti! Non voglio più avere niente a che fare con te».
«Non puoi, abbiamo un figlio. Danilo è anche figlio mio», obiettò lui indurendo la voce.
Ecco il tasto dolente. Ne aveva discusso a lungo con l’assistente sociale e l’avvocato del Centro Antiviolenza a cui si era rivolta quando si era trasferita e loro le avevano ribadito quello che temeva: se non riusciva a dimostrare che Lorenzo non era un buon padre (e come poteva? Lei non lo aveva mai denunciato!), lui aveva tutti i diritti di vedere e frequentare suo figlio.
Gocce di pioggia urtarono i vetri facendola sobbalzare.
Si ricordò allora di un altro rumore: zampette che raschiavano. Un paio di sere prima aveva acceso la luce, un movimento veloce aveva catturato la sua attenzione. Si era alzata dal letto precipitandosi in quella direzione. Aveva trovato un pezzo di battiscopa a terra, e dietro un buco.
Lo aveva comprato quella mattina. Era ancora nella borsa. Il topicida.
Fissò Lorenzo, simulando un’attenzione alle sue parole che era lontana dall’avere, poi starnutì.
«Scusa, vado a prendere un fazzoletto», disse portandosi la mano davanti al naso. Si alzò: aveva lasciato la borsa nell’ingresso. Prese la bottiglietta, la nascose sotto il maglione e si recò in cucina fingendo di soffiarsi il naso. Aprì lo sportellino sotto il lavello, buttò il fazzoletto di carta nella spazzatura e nascose il veleno nel mobiletto; poi, con calma, ritornò nel salotto col pacchetto di fazzoletti in mano.
«Stavi parlando di Danilo», gli ricordò accomodandosi e poi gli chiese se volesse qualcosa da bere. «Ho una bottiglia di vino in frigo. Così inganniamo l’attesa», propose conciliante.
«Ho smesso. Non bevo più».
«Davvero?».
«Sto frequentando un gruppo di Alcolisti Anonimi. Sono qui per questo».
«Allora un tè, che dici, ti va? O una tisana: limone e zenzero. Ho bisogno di qualcosa di caldo. Non vorrei essermi presa il raffreddore», disse e simulò un nuovo starnuto.
Lorenzo annuì e Marianna si alzò diretta in cucina. Aprì l’armadietto sotto il lavello.
«Posso aiutarti?», la voce di Lorenzo alle sue spalle la bloccò.
«Sì», rispose lei. «Prendi il vassoio che sta nella cristalliera, dietro ai bicchieri da champagne. Attento a non romperli», rispose distrattamente. Il vassoio non era lì, ma aveva bisogno di qualche minuto. L’acqua era già calda. Mentre lui armeggiava nell’altra stanza, prese la bottiglietta, svitò il tappo e ne versò il contenuto in uno delle due tazze. Le aveva scelte di colore diverso per non rischiare di sbagliarsi. Si accorse che la mano le tremava, mentre Lorenzo dall’altra stanza le urlò: «Non c’è, dietro i bicchieri da spumante».
«Prova a vedere sotto», rispose cercando di dare una parvenza di normalità al suo tono di voce.
Lui ritornò col vassoio sorridendo.
Benedisse i topi. E la campagna che circondava la villetta. E la scelta della villetta. Gli sorrise mentre posava le due tazze colme di tisana sul vassoio. E la zuccheriera. E i cucchiaini. E i tovaglioli di carta. Stava riacquistando coraggio.
Sedettero di nuovo ai loro posti. Fuori il temporale andava calmandosi.
«La pioggia sta cessando», constatò Marianna. «Dicevi di Danilo…», riprese il discorso cercando di restare calma e mostrarsi interessata. Si aiutò prendendo la sua tazza verde e portandosela alla bocca.
Lorenzo guardò fuori dalla finestra, poi allungò la mano e prese la tazza rossa.
La sollevò.
Marianna trattenne il fiato. Lui l’avvicinò alle labbra, ma non bevve. Lorenzo posò la tazza sul vassoio. Iniziò a grattarsi la tempia sinistra come faceva sempre quando era a disagio.
Marianna lo guardò. Si sforzò di portare l’attenzione alle parole che lui stava pronunciando.
«… non sono scuse», stava dicendo.
“Come no, brutto bastardo”.
«… so che non c’è niente che io possa fare per farmi perdonare…».
“Sì veramente una cosa c’è: crepare!”, continuò a rimuginare Marianna mentre il suo volto fingeva interesse e attenzione. Ma non vedeva lui. Vedeva il suo volto nello specchio, tumefatto, l’occhio semichiuso circondato da un alone violetto, il trucco che non riusciva a mascherarlo, gli occhiali da sole che non bastavano a coprirlo.
Aveva telefonato in ufficio, dicendo che non si sentiva bene. La freddezza dall’altro capo del filo le aveva fatto capire che il suo responsabile stava esaurendo la pazienza.
Inaffidabile, l’avevano chiamata, e lei aveva sentito di averli delusi: non sapeva fare altro. Deludeva tutti.
«Mamma, hai l’alito che puzza come quello di papà», le aveva detto Danilo, dopo un mese che lei aveva iniziato a bere, con il terrore nella voce quando lei si era avvicinata per dargli la buonanotte. Aveva glissato e gli aveva allontanato dalla fronte i capelli che gli cadevano sugli occhi.
«Dobbiamo tagliarti la frangetta, tesoro. È troppo lunga». Lo aveva baciato ed era andata via. Aveva trascorso la notte piangendo. Aveva capito che doveva andarsene e portare con sé Danilo.
Portò di nuovo la tazza alle labbra e bevve. Sperò lui la imitasse.
Lorenzo finalmente bevve un sorso.
«Sto frequentando un gruppo di aiuto per uomini che hanno problemi come… come il mio». Lorenzo ripose la tazza, aggiunse un cucchiaino di zucchero e continuò: «Quando mi hai lasciato ero arrabbiato. Ho giurato di fartela pagare. Ma poi con il passare dei giorni mi sono reso conto che stavo sprofondando». Tacque. Un altro sorso di tisana.
Marianna non riusciva a staccare gli occhi dalla tazza.
«Una mattina mi sono risvegliato nel mio vomito», continuò a raccontare. «Ho capito che o affondavo o mi rialzavo. Ho deciso di rialzarmi. E ho trovato questo gruppo». Bevve di nuovo. Sembrava voler trovare la forza di parlare nella tazza che stava stringendo.
Marianna lo guardò col cuore sospeso.
«Ho conosciuto una donna. Non ridere ti prego. Le voglio bene e vorrei… voglio sposarla. Ti ho cercata, ecco, perché… voglio il divorzio. Credo che anche per te sarebbe la cosa migliore, no?», concluse.
Lorenzo riportò la tazza alle labbra e la vuotò.
Marianna lo fissò con gli occhi sbarrati.
Si era innamorato.
Si era innamorato?
Un bolo di emozioni si impadronì di lei. Invidia. Gelosia. Rabbia. Trattenne il fiato, immersa nella tristezza che aveva marchiato i suoi ultimi anni, nella solitudine che si era imposta, per non correre il rischio di fidarsi ancora di un uomo.
Cercò nuovamente di concentrarsi su quello che le stava dicendo, ma la sua mente rigettava il senso delle sue parole, si limitava a registrare singoli suoni, rifiutandosi di abbandonare del tutto la compassione di sé che, come un liquido che si colora, lentamente stava tramutandosi in odio puro.
«È la terapeuta», aggiunse.
Ma Marianna non lo ascoltava più.
Si era innamorato!
Si fece pallido.
«Oddio, mi… mi sento male», quasi urlò Lorenzo portandosi le mani alla pancia.
Marianna si alzò e mosse un passo nella sua direzione. “Deve vomitare subito”, pensò. Ma rimase ferma, in piedi di fronte a lui, a fissarlo contorcersi per il dolore.
Doveva dirgli quello che aveva fatto, doveva farlo vomitare immediatamente. Non era venuto a farle del male. Doveva soccorrerlo. Doveva. Subito.
Lo guardò allungare una mano verso di lei. «Aiutami… sto… male…».
Sposarmi. Le voglio bene. Terapeuta. Aiuto.
Lorenzo smise di parlare e di muoversi. Rimase immobile.
Per lui era tutto tanto semplice. Perdonami-e-concedimi-il-divorzio. In un batter d’occhio, liberi tutti e due. Magari le avrebbe detto persino «lo faccio per te». Certo.
“E io? E la mia vita, le cicatrici per sempre? Il mio dolore? Che te ne fai del mio dolore?”
Rosaria Ciano è laureata in psicologia e ha lavorato presso un Centro di Salute Mentale. Attualmente in pensione, ama leggere e le è venuta la curiosità di comprendere il lavoro che si cela dietro un romanzo. Ha frequentato alcune scuole di scrittura: uno stage tenuto dalla scuola Omero, La linea scritta, alcuni corsi della scuola Holden e una delle edizioni di Apnea. Ha pubblicato un racconto su Il Roma e ha vinto il concorso Racconti Campani.