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Mai così lontano

A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ‘21/‘22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista. Questo è l’ottavo, lo ha scritto Giovanni Marco Maggio, e con l’editing l’allieva editor Sara Caroli e la redazione hanno suggerito all’autore di portare il racconto al tempo presente per renderlo più drammatico, di mettere meglio a fuoco il tema del racconto anche nel sistema di immagini utilizzate e rivedere il finale. Gli spunti forniti hanno portato l’autore a rilavorare in proprio il racconto, ripensandolo, per esempio introducendo il personaggio della barista.


Questo è il racconto di una sera in cui sembra inevitabile prendere una decisione drastica. È una storia di televisioni accese e ritorni alle origini, con una protagonista che ha tagliato i ponti con il passato e combatte con il presente. Sullo sfondo c’è una metropoli che inghiotte e la solita provincia tentacolare in cui vige l’imperativo categorico della fuga.


Mai così lontano

di Giovanni Marco Maggio

Gli dice che non ne può più di sentirlo. È girata verso il lavandino, traboccante di piatti da lavare, indossa dei guanti gialli in lattice, e pensa che non ne può davvero più. Tiene le maniche del cardigan arrotolate all’altezza dei gomiti, i capelli raccolti in uno chignon basso e le prudono le ascelle sudate per lo sbalzo termico tra l’esterno, dove fanno due gradi, e l’interno in cui, a causa dell’impianto centralizzato acceso al massimo, i gradi sono ventiquattro. Lui le chiede di cosa sta parlando e alza gli occhi dal tavolo della cucina. Devi sempre bere, devi bere ogni giorno, gli fa lei, e scuote la testa. Si chiede se può più esistere una sera in cui lui non tocchi bicchiere. Riesci a sentirlo, le risponde lui, è il suono della felicità, tararì tararà, eccolo qua, ti caccio pure le rime. Ridacchia e prende il tappo in sughero, lo reinserisce di forza giù per il collo della bottiglia, lo spinge dentro con il palmo della mano. Stappa di nuovo e fa schioccare la lingua sul palato per imitarne il suono, poi manda giù l’ultima sorsata. Lei apre il rubinetto e si gratta il naso strofinandolo sul bicipite. Non ti piace, le fa lui, a me tantissimo. Lo scroscio dell’acqua fa sì che le parole di lui suonino distanti. Gli risponde che non lo sopporta più quel cazzo di rumore, anzi che non sopporta più lui, e lo prega di andarsene, di lasciarla in pace. Lui scoppia a ridere, le chiede di stare zitta, per favore fai silenzio. Di scatto prende il sughero e glielo lancia addosso. Devi stare zitta, alza la voce, mi scrivi a stampatello cosa non ti è chiaro di quello che dico. Il tappo va a sbattere contro le piastrelle bianche e verdi, rimbalza sul tagliere in legno sistemato dietro al rubinetto, finisce per terra. Il tagliere cade dentro al lavandino, scheggia la base di un calice ancora da lavare, un’unghia di vetro schizza per aria. Lei chiude l’acqua e ricostruisce quello che è successo: mi ha tirato un tappo, bisbiglia tra sé e sé senza voltarsi, ha cercato di colpirmi con un tappo e non mi ha preso, non è capace nemmeno di concludere questo.

Finisce di lavare i piatti e richiude l’acqua, si sfila i guanti, li lascia sul bordo del lavandino a gocciolare e cammina in direzione della televisione. Il telegiornale delle ventuno trasmette notizie di stabilimenti industriali tossici e persone ammalate e aggressioni razziste in anonime città di provincia. La cronista riferisce che l’ultimo aggredito ha diciannove anni ed è rimasto vivo per miracolo. Si tratta del terzo caso in pochi mesi in zona, aggiunge in chiusura, poco prima di passare la linea allo studio. Il conduttore fa un rapido commento sull’accaduto e parte subito un servizio sui nomi più usati per i cani: per i maschi, il più amato è ancora l’intramontabile, questo l’aggettivo usato dal giornalista, Jack. Sta per spegnere, ha la nausea, ma si sofferma a sentire quali sono i nomi femminili più comuni. Da bambina aveva uno yorkshire, tenta di ricordare come si chiamasse. Le avevano dato lo stesso nome di quel cane mandato a disintegrarsi nello spazio, riflette, forse Laila, una cosa del genere. Il servizio dura meno di un minuto e mezzo e, quando finisce, lascia addosso una sensazione di stridore amaro. Afferra il telecomando e con una palombella lo fa finire accanto a lui, che intanto si è spostato sul divano. Guarda quello che ti pare, gli dice, e abbandona la stanza.

Dopo qualche tentativo fallito, accende la luce della camera da letto e si affaccia alla finestra. Condividono il cortile interno con altri tre palazzi e, mentre fuma, resta a guardare le auto degli inquilini parcheggiate negli spazi assegnati. Getta la cenere giù e pensa che sarebbe un privilegio avere il posto auto incluso nell’affitto ma che i parcheggi, d’altronde, non bastano per tutti, ed è normale che sia così. Fa un calcolo a mente: quattro palazzi, cinque piani, tre appartamenti per piano, di media in ogni appartamento quante persone ci vivranno, facciamo tre, più o meno centottanta persone in totale. Non saranno troppe, è impossibile, e chi le ha mai viste? Si domanda quanta gente possa riuscire a vivere nella stessa città senza pestarsi i piedi. Osserva un vicino rientrare con le chiavi di casa in mano, circumnavigare l’aiuola curata al centro del cortile, e riflette che vince chi riesce ad accontentarsi, quella sì che è una grande qualità quando si è adulti, accontentarsi di quello che capita, pur di vivere senza parcheggio in una metropoli, pure di evitare di peggio. Si domanda da quanto tempo appartiene anche lei a questa categoria, qual è stato il momento esatto in cui è entrata a farne parte. C’era stato un frangente in cui le era sembrato che le cose potessero andare diversamente, che insieme e solo insieme fossero destinati a qualcosa, che non doveva per forza essere grande, ma doveva essere qualcosa, e invece non era niente. Dice a sé stessa che, almeno sul passato, si riesce a esercitare qualche tipo di controllo, che lo si può sempre inventare a posteriori e poi tapparsi il naso, ma poi c’è il futuro, il regno delle infinite possibilità illusorie, è quello il vero problema, si è quasi tentati di crederci sinceramente, lei lo ha fatto.                                         

Fa precipitare il mozzicone di sotto e, guardandolo vorticare per aria, avverte una fitta partire dalla zona lombare, espandersi fino a coprire l’intera colonna vertebrale in lunghezza, elettrizzarle il collo. È una spinta, un impeto a seguirlo, a cui risponde sollevandosi sulla punta dei piedi e sporgendosi ancora di più verso il vuoto per seguirne la traiettoria. Ha metà busto fuori e la gamba destra sollevata per darsi slancio. Si tiene in equilibrio facendo leva sui gomiti e in quella posizione, per qualche secondo, rimane ferma. L’aria di fine novembre entra, ed è quasi impercettibile. Il vento le sfiora i capelli e le solletica le dita dei piedi, lei piega l’alluce per sentire lo scrocchio delle minuscole ossa, chiude la finestra e torna dentro. È buio fuori, l’uomo del cortile è già a casa, lei ha perso di vista il mozzicone, non è riuscita vedere dove è atterrato.

Torna in cucina, lui sonnecchia a bocca aperta sul divano. Russa piano, brevissime apnee gli tagliano il respiro. Ogni tanto muove le dita della mano, ma sono piccoli sussulti involontari, è in preda ai sogni agitati dell’alcool. Lei si piega per raccogliere il tappo rimasto per terra e lo lascia sulla mensola. Pensa che potrebbe prenderlo e ficcarglielo in bocca, strozzarlo e infilarlo giù per la sua gola, poi farglielo inghiottire e guardarlo soffocare. Non ti piace questo rumore, direbbe di fronte ai suoi occhi che implorano pietà, a me tantissimo.                            

Per qualche minuto ancora finge di guardare la televisione, poi la sua attenzione viene catturata dall’appendiabiti tra l’ingresso e il corridoio. Fissa il cappotto cammello che ha ricevuto in regalo anni prima, la sciarpa che sbuca da una tasca. Nell’altra ha il portafoglio, un pacchetto di fazzoletti di carta e le chiavi di casa. Si muove a piccoli passi verso l’ingresso e indossa il cappotto sopra al maglione colorato. Biascica qualcosa verso di lui, ma sente di non avere pieno possesso delle proprie parole. Non sa se siano delle scuse o delle accuse, se gli sta dicendo a dopo o addio.

Saltella giù dalle scale con le mani in fondo alle tasche, gioca con il mazzo di chiavi, preme l’interruttore rosso che spalanca il portone, esce e svolta subito a sinistra. A testa bassa percorre il viale contornato da alberi striminziti, spogli ma già addobbati con le luminarie natalizie. Le luci della stazione ora sono il suo faro, e cammina in quella direzione. Due macchine sono ferme a bordo strada con le quattro frecce intermittenti, rallentano il traffico e aspettano, di fronte a portoni sbarrati e divieti di sosta non autorizzati, che qualcuno scenda giù. Passa di fronte al libanese all’angolo, dietro alle vetrine d’esposizione riconosce una teglia di knafeh appena sfornato, attorno al tavolo due uomini con una birra in mano le fischiano e la invitano a entrare. Si stringe nelle spalle e cammina più veloce, scansa una pozzanghera, fa un saltino sul marciapiede bagnato, si gira per accertarsi che nessuno la stia seguendo, attraversa l’incrocio. Improvvisamente sente il peso di tutto ciò che le è mancato in questi anni e il freddo che le punge il naso sembra prometterle una nuova opportunità. È sempre d’inverno, pensa, che le cose della sua vita sono accadute: con il freddo e al buio, in città sconosciute e con persone che avrebbero successivamente composto l’elenco delle sue delusioni, seduta sui sedili posteriori di macchine che vanno avanti con gli abbaglianti accesi nella nebbia e in notti passate a parlare lingue straniere e a illudersi che il tempo si potesse fermare di fronte alla quinta Leffe bevuta in un pub vuoto e in chiusura sulla provinciale, mentre fuori impazzano le sirene delle ambulanze e della polizia, ma si avverte la sensazione di essere al riparo dai pericoli almeno per una volta e si tenta di ritardare l’alba con le parole.                                                    

Sul tabellone ci sono gli orari degli ultimi treni in partenza, lei controlla il binario e affretta il passo. Il treno è già in attesa con le porte spalancate e i vagoni illuminati. Si siede rivolta verso il senso di marcia ché, ha letto da qualche parte su internet, in questo modo si vede meglio la vita che viene e non si rimugina su quella che va. Cambia idea, le interessa di più concedersi ancora qualche istante per vederla scorrere tutta, la vita che va, e osservare impotente ciò che sta per lasciarsi alle spalle. Convincersi di non avere più scelta la rassicura. Allunga le gambe, ripensa alle volte in cui è salita su questo treno, la stessa tratta avanti e indietro, e da quanto tempo non lo fa. Si schiacciava in un angolo e dormiva con la testa poggiata sullo zaino prima di arrivare a lezione, accanto a lei gli altri pendolari. Per i primi due anni era stato così, e della città aveva conosciuto solo la stazione, la sede della facoltà di Lettere e la via dove vivevano i due compagni di corso con cui aveva fatto amicizia e con cui mangiava sughi pronti tra una lezione e l’altra. Non era cambiato molto finché non aveva conosciuto lui durante una serata a tema revival anni Ottanta. Era stata la solita storia, lui più grande di qualche anno, a lei quella relazione era sembrata la via d’uscita proposta da uno che conosce come funziona il mondo e vuole condividerne il segreto con te, e ci si era tuffata per intero.

Abbassa il finestrino per cambiare aria, una signora le si siede accanto e fa partire un video a tutto volume, con l’audio in giapponese, di un pinguino adulto che rincorre un cucciolo di pinguino, scivola durante l’inseguimento e rotola in acqua. La donna ride sguaiata e commenta tra sé e sé divertita, come se dentro a quel vagone non ci fosse nessun altro. Per quarantasette minuti lei si guarda indietro. Il treno lascia la stazione e, tra i palazzi e i negozietti di alimentari, vede scorrere i fotogrammi dei loro incontri al binario. Ti immagini, le aveva detto lui dopo qualche mese, se accorciassimo del tutto le distanze, potresti venire a stare da me. Lei aveva sorriso e aveva pensato che sarebbero stati una di quelle coppie che alla fine riescono a fare funzionare le cose in qualche modo, nonostante tutto, anche se le dispiaceva rinunciare alla precarietà di quegli abbracci in stazione.                                             

Ora osserva il paesaggio industriale, ed è come la mattina dopo una burrasca, potrebbe giurare che sia tutto in bianco e nero, che il treno proceda al rallentatore. Pensa che questo momento e questa sensazione siano un cliché, che finalmente anche lei sta vivendo un cliché. L’uomo che ha di fronte si alza e si piazza di fronte alle porte d’uscita. Lei ascolta gli annunci provenienti dagli altoparlanti delle stazioni e, a ogni fermata, legge il nome del paesino sul cartellone, aspetta il fischio del controllore e, ancora, la frase ripetuta, treno in partenza dal binario uno, e sorride.

Alla sua fermata è l’unica a scendere. Si volta indietro un’ultima volta, verso i passeggeri rimasti, e poi lascia la carrozza di seconda classe. Attraversa la sala d’aspetto anonima e deserta, percorre il viale, passa di fronte al cimitero cittadino. I cancelli sono chiusi e, anche se sa benissimo da dove entrare, decide di non farlo. Sbircia tra le sbarre e strizza gli occhi per mettere a fuoco la sfilza di lapidi giù in fondo dove, da adolescenti, si nascondevano a fumare. Supera la vecchia scuola elementare intitolata a un patriota sconosciuto. Da anni l’edificio è in stato d’abbandono e, al suo posto, dopo vane promesse, non è stato costruito nient’altro, dovevano farci un supermercato, o un enorme centro estetico con spa annessa. Le strade sono spettrali, identiche a come le ricordava, avvolte in quella densità surreale che, già da bambina, non le bastava e la faceva sentire in trappola. Si ferma a leggere i nomi sul citofono sotto al palazzo dov’è cresciuta. Riconosce il cognome dell’uomo che ha sempre vissuto al piano di sopra, quello della moglie è stato cancellato con una striscia di bianchetto. Dove c’erano i cognomi dei suoi genitori, adesso ci sono quelli di tre persone diverse. Non sa più dove vivano i suoi, è stata lei a dire basta, a non volerli più vedere, sono passati tre anni. Ogni tanto si sentono per telefono, loro chiamano per parlare di morti e ricorrenze, auguri e fatti viva ogni tanto, non hanno mai capito le ragioni della sua scelta e subiscono il fatto compiuto, lei ricambia le buone feste e le condoglianze e suppone che non siano andati lontano, che si siano spostati di pochi chilometri, per vivere in aperta campagna o per andare a stare in una casa più piccola, ora che sono anziani e di duecento metri quadri non se ne fanno niente.           Arriva in piazza che è da poco passata mezzanotte. Rimane seduta sui gradini della chiesa a non fare niente se non a seguire con le pupille le lancette dell’orologio della torre e ad ascoltarne il ticchettio. Per quindici minuti, tutto il tempo che trascorre lì piantata, non fa altro e non vede passare un’anima. Batte i piedi a terra, si accende una sigaretta. La mattina in cui se ne andò le tremavano le gambe: era domenica e aveva attraversato la piazza in diagonale e di corsa, con il sudore nervoso che le scendeva giù per le tempie, e lì, per caso, aveva visto per l’ultima volta suo padre. Si erano salutati come se nulla fosse, e per lui nulla era, le aveva chiesto se sarebbe tornata a casa per pranzo e l’aveva chiamata con il nomignolo che aveva da piccola, lei aveva annuito e lo aveva salutato con la mano, aveva detto ci vediamo dopo.

Le basta girare dietro la piazza e percorrere tre viuzze insignificanti lastricate di bolognini in porfido per sbucare su uno stradone buio che conduce fuori città. Passeggia sul ciglio della strada per mezz’ora, tenendosi a meno di un palmo dal guard-rail che ogni tanto lambisce con l’indice. Calpesta i fiori morti a bordo strada, non incrocia quasi nessuno, solo i fari di una macchina che, dal lato opposto della carreggiata, non si accorge nemmeno di lei e tira dritto. Tocca due volte il telefono, la schermata di blocco la informa che non ci sono chiamate, che non ci sono messaggi, che non c’è nessuna nuova notifica. Lo spegne e lo rimette in tasca. Spinge la porta d’ingresso del bar e si trova di fronte un locale rimesso a nuovo: non conosce chi lo gestisce oggi, di clienti ce ne sono pochi, la disposizione dei tavoli è diversa. Il televisore in alto all’angolo riproduce un video reggaeton senza suono, il simbolo sbarrato del volume viene rimpallato su e giù sul lato destro dello schermo, mentre le casse diffondono l’ultimo singolo di un gruppo rock americano. Chiede alla ragazza dietro al bancone se fa in tempo a bere una birra, lei le risponde che stanno chiudendo ma può ordinarne una in bottiglia. Prende una rossa, si accarezza il labbro inferiore e si annusa le dita screpolate, sanno di ferro e tabacco. Beve dal bicchiere. Tre uomini sulla cinquantina le fanno dei gesti che ignora, uno cerca di avvicinarsi, lei si volta dall’altra parte, l’uomo torna al suo posto, gli amici lo sfottono. Le è capitato decine di volte, si chiede quante volte ancora capiterà.         C’era stata anche la faccenda dell’ex, pensa mentre beve, che lo aveva lasciato poco prima del matrimonio ma che lui continuava a vedere una volta ogni tanto. Se avessi qualcosa da nascondere non te lo direi nemmeno che ci vediamo, la rassicurava, siamo rimasti in ottimi rapporti, poi si stirava la maglietta con le mani e andava a farsi una doccia. Pure su quella storia aveva sorvolato, aveva fatto finta di niente, convinta che essere adulti significasse soprattutto farsi da parte quando è necessario. Rimane seduta per venti minuti, scambia qualche battuta cortese, salda il conto alla cassa, esce fuori. Si ripara dal gelo sotto la tettoia in legno e nel buio, in lontananza, vede luccicare i colori dell’outlet a pochi chilometri da lì. Sta con le mani in tasca, dentro non è rimasto più nessuno, i tre uomini sono andati via senza importunarla di nuovo. La barista esce poco dopo, spegne le luci e chiude a chiave.

Adesso stanno percorrendo il tratto della provinciale che precede l’ingresso al paese, la ragazza le ha offerto un passaggio che lei ha accettato. È seduta davanti, sul sedile del passeggero, rincantucciata per occupare meno spazio possibile. La conducente avrà circa la sua età e le sta raccontando che quello è il primo lavoro dopo un anno e mezzo da disoccupata. Un uomo sta mettendo benzina alla stazione di servizio, è in piedi davanti alla macchina e regge in mano la pistola, guarda la strada da dietro il tettuccio. Gli ultimi mesi sono stati un inferno per me, siamo fortunate anche solo ad avere uno stipendio e una famiglia e qualcuno che ci vuole bene, dice la ragazza mentre si accende una sigaretta e ne porge una a lei, di cos’altro abbiamo bisogno se ci pensi bene. Fa di sì, già, hai proprio ragione, e accetta da fumare. Aspirano assieme, e a vicenda si sorridono, e sono entrambe in imbarazzo. Una persona che ha appena conosciuto sta guidando con una sigaretta tra l’indice e il medio della mano sinistra e la destra ben ancorata al cambio, lo sguardo sulla strada che hanno di fronte. Sente che potrebbe lasciarsi andare, avverte sulla faccia il vento che passa dal finestrino leggermente abbassato e che le mozza il fiato. Una cappa di fumo avvolge l’abitacolo, cerca una posizione comoda, si gira ancora verso la ragazza. Pensa che, in vite come le loro, si schiva un proiettile solo per prenderne in pieno petto un altro.

Fa l’ultimo tiro, non sa dove buttare la cicca, la rimette in tasca avvolgendola in un fazzoletto di carta. Ora si trovano sulla strada che va verso la stazione e riaccende il cellulare, lui le ha mandato un messaggio che si chiude con tre punti interrogativi: si può sapere dove sei. Visualizza ma, per il momento, non ha intenzione di rispondere. Inspira, ha la faccia anestetizzata dal freddo, guarda ancora la barista e guarda ancora fuori: c’è un cartello di benvenuto che recita il nome del paese e quello delle due città polacche e lituane gemellate sotto, ci sono i giardini pubblici, le rotonde, i primi condomini. Tortura il fazzoletto con le mani, la macchina rallenta per accostare. Espira, scende e ringrazia, dà la buonanotte alla ragazza. Sa che non la vedrà mai più. In punta di piedi rientra in stazione e, con le mani in tasca, procede verso la griglia con il quadro orario appesa al muro. La sfiora con l’indice, cerca il primo treno in partenza, indugia sull’orario segnalato. Sblocca ancora il cellulare: mancano poco più di due ore. Si lascia scivolare verso il pavimento sporco, si siede con la schiena poggiata al muro, le ginocchia al petto e  rilegge vecchi messaggi.


Giovanni Marco Maggio è nato a Marsala nel 1993. Vive e lavora a Roma. Alcuni dei suoi racconti sono apparsi su Risme, micorrize, Fantastico!, Pastrengo e Atomi di Oblique Studio.

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