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Ripubblicare Macedonio Fernández, il più famoso tra gli autori ignoti

La longevità dei libri è molto variabile: pochi sono eternamente in catalogo, altri vivono un decennio di gloria, altri finiscono troppo presto al macero e si ripropongono soltanto sui canali di vendita online, con lo status di rarità e a prezzi irragionevoli. Non sempre, però, la durata della vita di una specifica edizione è proporzionale al valore del libro messo in commercio. Ci sono libri che, per i motivi più disparati, meriterebbero di tornare dall’oblio: Desiderata è la rubrica che invita ad accorgersene.

DESIDERATA #1

Museo del romanzo della eterna (primo romanzo bello)
di Macedonio Fernández (1874-1952).


Un classico tra i cercatori di libri. In Italia è stato pubblicato una sola volta, nel 1992, dall’editore genovese il melangolo, secondo titolo della collana Lecturae dopo Il mare di Jules Michelet. Stando alla nota del curatore, Fabio Rodriguez Amaya, Museo appariva per la prima volta all’estero e sarebbe stato seguito dal suo romanzo «gemello», Adriana Buenos Aires (Ultimo romanzo brutto), che però non fu mai pubblicato. L’editore non ne ha in programma la ristampa.

Museo non è un libro facile. Siamo nei territori di un avanguardismo sornione che a una prosa elaborata e musicale contrappone un esubero di scherzi metaletterari. Il romanzo inizia soltanto a pagina 177, dopo 57 prologhi pensati per prevenire qualsiasi riflessione del lettore. Museo è una costante e autoindulgente proiezione verso il romanzo perfetto, esplicitata dall’autore in una Lettera ai critici:

«Noi scrittori che non abbiamo ancora capito che già da tempo avremmo dovuto attenerci all’atteggiamento di critici, sapendo quale terribile fatica sia costruire un libro a regola d’arte e quanto minima sia la probabilità di riuscirci, non solo soffriamo ma inaridiamo perché non realizziamo il Libro e in attesa di scriverlo perdiamo la piacevole speranza di poter ritrovare la Perfezione nei tentativi di altri. Io non ho trovato una valida espressione della mia teoria artistica. Il mio è un romanzo mancato, però vorrei mi si riconoscesse di essere stato il primo a cercare di utilizzare quel mezzo prodigioso di commozione della coscienza che è il personaggio di un romanzo nella sua reale efficacia e virtù […] Mi si riconosca anche che con questo mezzo e con altre idee che vengono formulate via via all’interno del libro rendo più attuabile quella Perfezione in cui sperate e, dandone anche qualche esempio, una dottrina severa dell’arte letteraria. Se sbaglio non sarò né il primo né l’ultimo».

La prima metà del volume è densa di teorie sulla forma romanzo, sulla costruzione dei personaggi, sulla fama e persino sul mercato editoriale («un primo successo si registra già nella copertina dove il Lettore-minimo viene raggiunto completamente dall’unica cosa che i librai, meschinamente, hanno letto: il frontespizio»), il tutto infarcito da speculazioni filosofiche simboliste, affermazioni oracolari, personaggi allegorici e trovate umoristiche (come quando, dopo un’affermazione dubbia, una nota dell’autore recita «68 lettori si congedano. [M.F.]»). La parola chiave è metafisico, che compare ben 77 volte. Il romanzo in sé è secondario all’importanza concettuale dell’opera nel suo insieme: Museo è, semplificando, il tentativo di un personaggio (il Presidente, che è Fernández, ma anche Forsegenio, autore-lettore e molti altri) di celebrare l’amata Eterna (o Dolce-Persona, o Bellamorta, o Bellaviva) attraverso un’opera immortale proprio perché inconclusa, come conferma il «prologo finale» rivolto «A chi voglia scrivere questo romanzo»:

«Lo lascio libro aperto: sarà magari il primo “libro aperto” nella storia letteraria, questo perché l’autore, desiderando che fosse migliore o perlomeno buono ed essendo convinto che, data la sua struttura disarticolata, si tratti di una grossolanità temeraria nei confronti del lettore, comunque ricca di suggestioni, autorizza qualunque scrittore futuro che abbia lo slancio e trovi circostanze favorevoli a un intenso lavoro, a correggerlo e pubblicarlo liberamente, menzionando o meno la mia opera e il mio nome. Non sarà un lavoro da poco. Sopprima, corregga, cambi, ma, se è il caso, che qualcosa rimanga».

C’è ben poco che Fernández non avesse previsto, ma a questo punto facciamo un passo indietro per capire chi era.

Macedonio Fernández nacque nel 1874 a Buenos Aires, da dove non si spostò mai. Nel 1898 diventò avvocato e sposò Elena de Obieta, con la quale ebbe quattro figli. Secondo Borges, «rare volte [Fernández] accondiscese all’azione e visse dedito ai puri piaceri del pensiero»; la letteratura gli «importava meno che il pensiero e la pubblicazione meno che la letteratura, vale a dire quasi nulla. […] voleva comprendere l’universo e sapere chi era lui, o sapere se era qualcuno. Scrivere e pubblicare erano per lui azioni subalterne». Leggeva tanto, non per migliorarsi come scrittore, bensì per elevarsi spiritualmente; apprezzava Schopenhauer (in particolare Il mondo come volontà e rappresentazione), aveva il culto di Cervantes e si immedesimava in Edgar Allan Poe:

«Credo di assomigliare molto a Poe, anche se ho iniziato da poco a imitarlo in qualcosa; credo di essere Poe un’altra volta; ed è straordinario che questa mia somiglianza come autore e come figura sia stata riconosciuta da un poeta peruviano, Mario Chabes. Non è una somiglianza, è… Chi lo sa!… Una riapparizione. Nel poema Elena Bellamuerte mi sentivo Poe nel sentimento, e tuttavia credo che il testo non riveli con lui alcuna somiglianza letteraria».

Fernández amava l’intellighenzia argentina, che considerava superiore a quella spagnola, anche se stimava Miguel de Unamuno e quei pochi che si erano messi «a pensare bene perché sapevano che li avrebbero letti a Buenos Aires». Protagonista dell’ultraísmo, sodale dei migliori autori argentini della prima metà del secolo, collaboratore delle più importanti riviste dell’epoca, in vita Fernández pubblicò tre opere, No toda es vigilia la de los ojos abiertos (1928), Papeles de Recienvenido (1929) e Una novela que comienza (1941, versione embrionale di Museo). Nel 1920 patì la scomparsa dell’adorata moglie, alla quale dedicò il poema Elena Bellamuerte, concepito per «uccidere la morte di lei» (a questo lutto non si è data finora la giusta quando si parla di Museo e della sua interminabile gestazione – quasi mezzo secolo).

Poco dopo divenne amico di Jorge Luis Borges (1899-1986), ai tempi poco più che ventenne (“Ho ereditato da mio padre l’amicizia e il culto di Macedonio Fernández”). Borges trovò in lui un maestro: «In quegli anni lo imitai, fino alla trascrizione, fino al devoto e appassionato plagio. Lo sentivo: Macedonio è la metafisica, è la letteratura. Chi lo ha preceduto può risplendere nella storia, ma non restano che abbozzi di Macedonio, versioni imperfette e anticipatrici. Non imitare questo canone sarebbe stata un’imperdonabile negligenza» [Estratto del testo di Borges iscritto sulla tomba di Fernández nell’aprile del 1952]; e ancora: «Nel corso di una esistenza ormai lunga ho conversato con persone famose; nessuna mi impressionò come lui, neppure in modo analogo. Cercava di nascondere, non di sfoggiare, la sua straordinaria intelligenza; parlava come ai margini del dialogo, eppure ne era il centro». Qualcuno sostiene addirittura che «sin Macedonio no habría Borges» (senza Macedonio non avremmo avuto Borges), ma è un’esagerazione.

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Autore: Macedonio Fernández
Titolo: Museo del romanzo della Eterna (primo romanzo bello)
Titolo originale: Museo de la novela de la Eterna (primera novela buena)
Traduzione: Giovanna Albio, Paola Argento, Martha Canfield, Fabio Rodriguez Amaya
Editore: il melangolo, 1992

È vero invece che la notorietà di Fernández si deve in buona parte a Borges, il quale, diffondendo il mito più che le opere, stava «creando il suo precursore», in linea con ciò che avrebbe affermato in Kafka e i suoi precursori (in Altre inquisizioni, 1952): «ogni grande scrittore crea i suoi precursori». Lo stesso Fernández commenterà in seguito: «Nacqui porteño e in un anno molto 1874. Non subito dopo, però sì, poco dopo già cominciai a essere citato da Jorge Luis Borges, con così poca riservatezza di encomi che, per il tremendo rischio a cui si espose con questa veemenza, cominciai a essere io l’autore del meglio che lui aveva prodotto. Fui un talento de facto, per travolgimento, per usurpazione della sua poesia. Che ingiustizia, caro Jorge Luis!» La fama non lo interessava e per tutta la vita, come osservato da Tommaso Pincio, Fernández tese alla condizione di «famoso autore ignoto»: non si curava di preservare i suoi scritti, spesso appuntati su fogli sparsi, e se a partire dal 1960 il figlio Adolfo de Obieta non si fosse «cimentato nell’ardua impresa di raccogliere, ordinare e diffondere l’opera completa del padre», oggi probabilmente ne rimarrebbe ben poco.

Resta il fatto che Macedonio Fernández è diventato il nume tutelare di molti scrittori argentini e sudamericani. Roberto Arlt lo cita nell’incipit di Il piacere di vagabondare, una delle Acqueforti di Buenos Aires (1933): «credo che per vagabondare occorrano eccezionali doti di sognatore. Già lo disse l’illustre Macedonio Fernández: “Non tutti gli occhi aperti sono svegli”». Cortázar fu ispirato dal suo umorismo concettuale, ed è spesso accostato a lui anche per altri motivi. Come rilevato da Matteo Bugliaro, Bolaño definiva Fernández «un Valéry porteño», per via della malinconica cerebralità (anche se Borges sospettava che Fernández considerasse Valéry un «ciarlatano della scrupolosità»). E Ricardo Piglia gli ha dedicato un romanzo, La città assente (1992), nel quale Fernández è riuscito a rendere eterna la sua Elena non attraverso la letteratura, bensì preservandone lo spirito (o la memoria) in un misterioso congegno custodito in un museo.

Perché oggi un editore italiano dovrebbe ripubblicare Museo del Romanzo della Eterna? Non è la domanda giusta. Museo è l’opera più rappresentativa di Fernández, nonché un esperimento esistenziale e scrittorio senza precedenti, ma il problema non è la sua reperibilità, quanto il fatto che da noi Fernández sia ancora sconosciuto. Negli ultimi dieci anni il suo nome torna a galla, sempre più spesso, quale capostipite di una letteratura, quella latinoamericana, che ha trovato il suo spazio anche grazie a editori come SUR, La nuova frontiera, Granvìa, Del Vecchio e altri; e va segnalato il lavoro critico di Gustavo Micheletti, disponibile sul sito Dialegesthai (tre saggi pubblicati tra il 2005 e il 2007 che meritano anch’essi un editore). Altrove, purtroppo, Fernández non è ricordato per la sua produzione bensì unicamente in quanto mentore di Borges, che spesso si limitò a enfatizzarne l’eccentricità: «Per un anno o due si baloccò con il vasto e vago progetto di diventare presidente della Repubblica», poiché «in molti si propongono di aprire una rivendita di tabacchi, e quasi nessuno di diventare presidente […] e da questo dato statistico aveva dedotto che fosse più facile diventare presidente che proprietario di una tabaccheria».

Fernández, però, non può essere ridotto al suo mito. La sua metafisica è complessa, coerente e affascinante, e Museo è un soltanto il punto di partenza ideale per proporne l’opera omnia. Un editore può aver paura che non venda? Quante delle 60.000 nuove pubblicazioni annue non superano le centinaia di copie vendute? Bolaño, riflettendo nel 2003 sulle origini della nuova letteratura latinoamericana, si lamentava che i giovani scrittori si preoccupassero soltanto di vendere, e si chiedeva:

«E cos’è che non vende? Ah, questo è importante tenerlo bene in mente. La rottura non vende. Una scrittura che si immerge con gli occhi aperti non vende. Per esempio: Macedonio Fernández non vende. Se Macedonio è uno dei tre maestri di Borges (e Borges è o dovrebbe essere al centro del nostro canone), questo è il meno. Ogni cosa sembra indicarci che dovremmo leggerlo, però Macedonio non vende, per cui lo ignoriamo. Se Lamborghini non vende, basta con Lamborghini. Wilcock è noto solo in Argentina e solo da pochi lettori infelici. Pertanto, ignoriamo Wilcock».

Nel frattempo, però, Lamborghini è finalmente apparso in Italia con Miraggi Edizioni, e Wilcock, dopo un periodo di latitanza, dal 2014 sta ricomparendo per Adelphi. Ma, al di là di questo, è ancora concepibile, nel 2020, applicare le logiche della vendibilità a un caposaldo di una determinata letteratura, necessario a comprenderne più profondamente parte della produzione successiva? Forse Museo è labirintico, auto-riferito e inconcludente, ma è anche cruciale. Finché Macedonio Fernández non sarà presente sul mercato italiano, e in modo stabile e dignitoso, gli appassionati di letteratura argentina e sudamericana saranno privati di un tassello fondamentale. Certo, è possibile che qualcuno stia da tempo lavorando a un’edizione critica delle opere complete, ma se così non fosse, è tempo che questa lacuna venga sanata.

NOTE
Barrenechea, Ana María, Macedonio Fernández y su humorismo de la nada, en Buenos Aires Literaria, n° 9, giugno 1953, pp. 25-32.
Bolaño, Roberto, Siviglia mi fa morire, in Tra parentesi: Saggi, articoli e discorsi (1998-2003), Adelphi, 2009.
Leonardi, Emanuele, Cortázar e Macedonio. Le discrete rivoluzioni dell’umorismo decostruttivo, in Simbologie e scritture in transito, Edizioni Ca’Foscari, 2016.
Pincio, Tommaso, La macchina sinottica, in La città assente, SUR, 2014, p 14.
Sanjinés, José, The Bewilderment of Being: Resonance of Macedonio Fernández in the Latin American Fantastic, 2017.

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