di Marco Malvestio
Ci sono due domande piuttosto diverse che si possono fare intorno alla scrittura, benché all’apparenza molto simili: perché scrivere? E perché io scrivo? E benché la prima domanda sia di portata talmente vasta da essere, evidentemente, priva di una risposta univoca, la speranza è che la risposta alla seconda domanda possa aiutare a capire qualcosa di più della prima.
Non serve ricordare quanto spiacevole sia scrivere, quanta fatica comporti e quale desolante assenza di risultati immediati. Sono cose che ha già detto bene Alfredo Palomba in Scrittori presso se stessi, ma vale la pena ricordarle: si tratta di sedersi davanti a un PC o, più raramente, a un foglio bianco, e sistemare una frase per bene, poi girarla, poi rigirarla di nuovo, poi forse scriverne un’altra, e così via. Se mi preparo quello che devo scrivere, allora mi ritrovo a tentare disperatamente di infondere vita in un materiale altrimenti inerte; se invece non mi preparo e cerco di arabescare, eccomi perso nell’impresa di dare consistenza al frutto di successive, vertiginose approssimazioni.
Scrivere significa cercare di aggirare le centomila distrazioni che si annidano dentro di noi, dentro il nostro PC, nell’ambiente in cui viviamo. Significa mettersi a comporre qualcosa su cui è difficilissimo avere una visione d’insieme, il che moltiplica il timore di stare facendo tutto sbagliato; e meno si parla dell’ansia che viene quando non si lavora, meglio è. Soprattutto, poi, è un’attività che non paga: né economicamente, il che va senza dire, né in termini di prestigio sociale, vista la smaniosa vanità (in entrambi i sensi) di questa pratica.
Cionondimeno, la quantità di persone che scrivono, se non altro tra i miei conoscenti, è drammaticamente alta, quasi da emergenza sociale. E se anche il lamento usuale che ho snocciolato nel paragrafo precedente non fosse estendibile all’allegra brigata di scrittori che popola la mia filter bubble, valga almeno il mio caso: sì, scrivere è spiacevole, è faticoso, non serve a niente, ma lo faccio lo stesso. E lo faccio spesso (ma meno di quanto vorrei), e da molto tempo, benché io abbia solo ventisette anni.
Anche per le ragioni succitate, io non credo alla scrittura come ginnastica. Riconosco che ci sono persone che scrivono per gioco, per il gusto di provare una voce o una trama o uno stile o una soluzione metrica, e così via; semplicemente non è il mio caso, perché non rientra nell’orizzonte delle mie possibilità. Sarà perché io, di mio, sono una persona ansiosa. Questa ansia si manifesta anche nel mio rapporto con la lettura, che è poi lo specchio della scrittura, essendo io un lettore, come si dice, onnivoro, ma anche disgraziatamente bulimico: e dunque, benché io legga sostanzialmente perché mi piace leggere, come dicono le bio su Tumblr, perché mi piace disperatamente leggere ed è l’unica attività a cui non so davvero rinunciare, non riesco a pensare che questo piacere sia dissociabile dall’ansia di leggere tutto, di avere il controllo su tutto il leggibile, e così via. Leggere è divertente, ma non si può leggere solo per divertirsi: si legge per vivere.
Ecco, anche per questa ragione, ho sempre pensato che, per quanto si possa, praticamente, scrivere per divertirsi, per scrivere sul serio servano delle ossessioni: niente di terribile o di sublime, anche ossessioni piccolo borghesi, semplicemente dei temi o delle idee intorno ai quali si possano raccogliere delle forme – temi e idee, però, che ci siano vicini come i nostri visceri. La scrittura è forma, come sa chiunque abbia mai provato seriamente a comporre un testo in prosa o in versi; ma le forme non esistono da sole, senza uno scopo e senza una causa.
Chi, come me, si appassiona di narrativa horror, di un genere letterario, cioè, eminentemente d’evasione, e che dunque a rigor di logica pertiene più alla ginnastica che all’ossessione, potrebbe tranquillamente rimproverarmi che si tratta di una presa di posizione un po’incoerente. Al contrario, questo tipo di distinzione è particolarmente visibile proprio in un genere che meno di altri è viziato da pretese di letterarietà: chi si legge Barker o certo King (Pet Sematary!), e fa il confronto invece con bestselleristica gustosa ma senz’anima come, non so, The Terror di Dan Simmons, o operazioni gelidamente intellettualistiche come il recente A Head Full of Ghosts di Paul Tremblay, capisce subito quanto proprio l’ossessione sia essenziale alla riuscita dell’opera, o meglio, alla sua capacità di squassare il lettore.
Io scrivo poesia e prosa, o meglio, poesia e narrativa; ho sempre fatto così, con diverse gradazioni di imperizia a seconda dell’età che avevo, e si è sempre trattato di due attività profondamente diverse. Chi legge i miei versi, per esempio il mio contributo al volume a tre Hula Apocalisse, può rendersi conto che la mia poesia prende una certa forma: la voce è alta e teatrale, la lingua in bilico tra una solennità ridicola e cadute improvvise nel prosaico, ci sono numerosi riferimenti mitici capovolti, un uso forsennato e parodico della metrica. Questa forma (questa mia lingua poetica, mi verrebbe da dire) non è frutto di un esercizio, ma si è sviluppata per dire qualcosa di molto preciso: la sensazione costante che provo di non essere capace di dire la verità, l’idea che ogni cosa che dico possa moltiplicarsi in un discorso equivalente, uguale e contrario. Per esprimere questo pensiero, era necessario creare una forma in grado di veicolarlo; ma questa forma, senza quel particolare contenuto, è vuota e incapace di riferire altro.
Non sono soluzioni applicabili alla prosa, benché la mia prosa sia animata dalla stessa identica preoccupazione: e infatti, quando scrivo narrativa, i problemi sono altri – molto banalmente, costruire una voce narrante credibile, dei personaggi in grado di dialogare, delle situazioni narrative e una trama coerente e pregna di significato. Ma ovviamente qui siamo ancora, entro certi limiti, al livello del contenuto, dell’impalcatura – dell’inventio e della dispositio: cose importantissime, perché un romanzo non è fatto solo di bella prosa, come troppi narratori italiani vorrebbero farci credere, ma la prosa serve a dare sostanza e credibilità al resto – e viceversa. E dunque, se i riferimenti lirici e il monologo da melodramma che animano la mia poesia sarebbero fuori luogo in narrativa, ci sono comunque espedienti formali che adotto per esprimere le stesse angosce che mi motivano a scrivere (l’ansia, in un certo senso, di non riuscire a essere diversi da come si è): un uso massiccio di incisi e parentetiche, una subordinazione artefatta, un tono in bilico tra l’alto e il basso, e così via.
Anche in questo caso, si tratta di uno stile che non sarebbe adatto a ogni contenuto; se volessi scrivere un romanzo gotico o una saga familiare dovrei calibrare le mie parole in tutt’altra maniera. Ma, ancora, dovrei trovare un’ossessione intorno alla quale le forme del romanzo gotico e della saga familiare possano avere significato. Il mestiere dello scrittore sta in questo, credo: non nella scrittura a comando, ma nel riuscire a informare delle strutture, con buona approssimazione, universali, di un contenuto personalissimo. E questa intersezione è anche (e lo dico senza disprezzo per la critica, e da persona che, in questo particolare momento della sua vita, e forse non per molto tempo ancora, è pagata per fare della critica letteraria) il nucleo oscuro della scrittura, da cui questa si propaga, ma che rimane irraggiungibile per il critico.
E dunque, in altre parole – perché scrivo, perché scrivere? Per dire qualcosa che non può essere detto diversamente. Che non si scriva per esprimere se stessi è un luogo comune, non del tutto errato, che tende a essere ribadito con grande frequenza e ostinazione dagli insegnanti di scrittura creativa e più in generale da chi viene subissato dalle richieste dei dilettanti di leggere testi diaristici e privi di elaborazione. Allo stesso tempo, è un’imprecisione. È vero che noi non scriviamo per dire qualcosa, per comunicare un semplice contenuto: se sto male e voglio sfogarmi o farlo sapere, non serve scrivere un racconto, basta dire che sto male. Soprattutto, un racconto scritto semplicemente per dire “sto male” difficilmente potrà essere utile al prossimo. Tuttavia è vero che noi scriviamo perché abbiamo qualcosa da condividere, perché crediamo che qualcosa che sta dentro di noi possa manifestarsi fuori di noi in maniera da essere condiviso dagli altri. L’atto stesso di scrivere non è che un tentativo di creare uno spazio (testuale) in cui quello che desideriamo dire possa dirsi veramente, possa accadere in eterno e senza di noi.