fuori serie, studio & analisi critica
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“È bello essere cattive”. Antieroi(Femmi)ne alla riscossa.

di Chiara M. Coscia

Durante uno degli ultimi episodi di Masterchef Italia, uno dei partecipanti, tale Guido – che si è aggiudicato il vistoso ruolo del “più bravo” – dopo aver goduto della possibilità di mettere gli altri concorrenti in difficoltà, ha esposto candidamente davanti alle telecamere il pensiero: “È bello essere cattivi”.
Una frase del genere, se non filtrata attraverso tutto il meccanismo di produzione dello show, può risultare fastidiosa, deprecabile anche. Tuttavia, si tratta di un’asserzione immediatamente comprensibile e totalmente coerente con il personaggio di Guido. C’è sempre l’antipatico-potenziale futura stella Michelin a Masterchef. Quello che poi, alla fine, vince. Fa parte del format della competizione accesa (solo in Masterchef Australia si amano tutti). E funziona benissimo, perché il pubblico brama gli antieroi. Anche in cucina, evidentemente.
I personaggi sono specchio della società e della complessità di cui questa è portatrice, e se, a partire dal Novecento, risulta già impossibile chiuderli all’interno di una dicotomia fissa e stabile eroe/villain, l’acquisizione di complessità e umanità ha continuato a fare progressi che potremo definire “fisiologici”, assestandosi ormai sulla figura del protagonista antieroe.
Gli antieroi sono pluridimensionali, difettosi, stabiliscono strato su strato un’umanità fortemente immedesimabile. Sono dotati di uno spessore che i buoni e i cattivi semplicemente non possono avere. Esibiscono atteggiamenti non propriamente forieri di rettitudine morale, sono spesso odiati dagli altri personaggi della storia, agiscono in base a schemi non sempre condivisibili, eppure non possiamo fare a meno di “tifare” per loro. Gli antieroi sono umani, sono credibili perché pieni di contraddizioni e di difetti, funzionano perfettamente perché ci rapportiamo a loro in maniera totale.
E quindi amiamo Dr House nonostante sia un cinico misantropo tossicomane, Walter White e Tony Soprano nonostante siano, in modalità e significazioni diverse, due criminali assassini, Don Draper nonostante sia un egomaniaco dall’identità scompaginata, e così via.
Questi sono solo alcuni dei più famosi antieroi delle serie TV degli ultimi anni. Ma dove sono i loro contraltari donne? Al di là della possibilità di sovrapposizione e ricomposizione del ruolo di eroe e antieroe, così come dell’antieroe e il villain, ci siamo ormai abituati a protagonisti sempre meno chiusi nella dinamica buono/cattivo, ma comunque ancora relegati, in linea di massima, dentro uno stereotipo binario di genere.

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foto di benjamin balazs

La figura dell’antieroe maschio, che ricorre alla violenza, che agisce al confine tra il legale e l’illegale, che assume atteggiamenti funzionali alla ricerca del potere, che vive una mascolinità spesso combattuta, smantellata, minata – ma pur sempre mascolinità – è una figura collaudata al punto da essere diventata essa stessa stereotipo.
Le cose stanno cambiando, in maniera decisamente rapida, negli ultimi anni. Finalmente abbiamo abbattuto l’ultima barriera del sessismo: quella per cui una donna deve essere, in fin dei conti, sempre moralmente più predeterminata alla rettitudine di un uomo. Una delle cose che abbiamo visto succedere nelle narrazioni degli ultimi anni, infatti, è l’uso dello stereotipo di genere come strumento per capovolgere lo stereotipo stesso. È arduo ricostruire alla perfezione l’origine di un fenomeno o di un cambiamento culturale, quello che possiamo fare è osservarne i risultati e le applicazioni.
Nel 2018, a ridosso del movimento #MeToo, le questioni di potere nonché il sinonimo tra donna e vittima sono in continua discussione e riconfigurazione. Lo erano già da prima? Certo. Il #MeToo ha avuto un’influenza però, quanto meno nella necessità/scelta di imporre la questione all’attenzione di massa. Femminile non significa più, necessariamente, vittima da abusare. Ecco quindi che, se Skyler White, Betty Draper, la stessa Lisa Cuddy e Carmela Soprano si sono prese a piene mani l’antipatia dei fan, oggi quest’equilibrio sembra essere in via di bilanciamento.
A tracciare il sentiero che porta a Camille Preaker (Sharp Objects), Eve e Villanelle (Killing Eve), Quinn King (UnREAL), fino alla recentissima Nadia Vulvokov (Russian Doll) sono state in tante, ma è notevole come nel 2018 sia facile trovare serie TV che presentano personaggi femminili un tempo inimmaginabili. Finalmente anche le donne possono fare schifo, nello specifico quando occupano uno spazio e un ruolo in cui a tutti i personaggi maschili è non solo consentito, ma sentito come dato culturalmente accettato, il fare schifo.
Una delle antieroine più note della serialità degli ultimi anni è uscita dalle mani di quell’autrice di assoluto successo planetario e di massa che è Shonda Rhimes.
Annalise Keating, la protagonista della serie TV How to Get Away With Murder (Le regole del delitto perfetto), è un antieroe maschio classico nel corpo della bravissima Viola Davis. Fa cose orribili, è un’abilissima manipolatrice, un’alcolista recidiva che mente, tradisce, ordisce trame complicatissime e infine vince, sempre in funzione della sua personale quest eroica che è esattamente quella sancita dal titolo – in inglese, e cioè come farla franca dopo aver commesso un omicidio – e infatti sappiamo che il nucleo narrativo della serie non sono tanto i singoli casi che Annalise affronta, ma la storyline dei suoi studenti che, a partire dalla prima stagione, si sono trasformati in assassini. La storia di Annalise non è una storia mossa da un desiderio personale di successo – successo che la protagonista già ha, in quanto avvocato di fama e docente universitario. Esiste un’etica nel suo agito, un’etica tutt’altro che individualista, votata alla protezione delle persone che le stanno a cuore.
In effetti, c’è un passaggio ulteriore che fanno i personaggi femminili di nuova generazione, un passaggio che rende Annalise Keating “meno” antieroe. Se prima l’empatia che provavamo per un personaggio doveva essere giustificata da una motivazione alla base comunque umanamente valida e unanimemente condivisibile (e questo vale sia per i personaggi maschili che quelli femminili– vedi alla voce Dr House, salvatore di vite), oggi non è più così.

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foto di miguel-bruna

Oggi possiamo avere antieroi imperdonabili e allo stesso tempo appassionarci a loro. Forse è merito di Walter White, o forse no. In una società che mette in discussione ogni aspetto della Moralità Assoluta, questa non può che diventare opaca e spaziare dal discutibile al totalmente disapprovabile. E se questo succede sulle nostre pagine Facebook, sui nostri profili Twitter, a tavola a pranzo la domenica, è ovvio – e decisamente più salutare – che accada anche nelle storie che raccontiamo e che ci appassionano. La simpatia per i personaggi antieroici ci ha concesso di perdonare serial killer, misantropi, egomaniaci mossi da una hybris mastodontica, mafiosi, spacciatori, traditori, assassini. A quanto pare, la linea di genere sembra essersi finalmente rotta. Il concetto bidimensionale di donna che spazia in maniera netta da madre amorevole a femme fatale era già obsoleto ai tempi di Sex and the City. Oggi è ridicolo. Questo perché l’empatia necessaria a comprendere le istanze femministe passa anche attraverso la nostra capacità di compenetrare e immedesimarci nei personaggi femminili “difficili”.
Uscire dagli stereotipi significa anche uscire dagli schemi imposti dal femminismo stesso. La narrazione della donna che oscilla tra ruolo di vittima abusata a quello di potente, rinata e perfetta wonder woman è una narrazione che sottostà non solo ai dettami dello sguardo maschile, ma anche a quelli di un certo tipo di idea di femminismo (e sottolineo idea) diffusa e usata per convenienza.
Prendiamo UnREAL, una serie TV di quattro stagioni finita nel 2018, che ha come protagoniste due donne alle prese con la produzione di un reality show. Quinn King e Rachel Goldberg sono rispettivamente un’executive producer e una producer di talento e successo, che nel mondo dei reality significa essere profondamente manipolatrici, ciniche e senza scrupolo alcuno. Sono detestabili per almeno il 75% dei minuti della serie TV, eppure sono adorabili nel loro essere detestabili, al pari di un Toni Soprano (no joke). Il fatto che Quinn e Rachel siano così imperfette nel loro essere umane (e autodichiarate femministe) è ciò che rende estrema giustizia al profondo femminismo della serie TV. Come sostiene Marama Whyte in quest’articolo di «Hypable» del 2015, c’è un che di liberatorio nella narrazione di una femminilità che fa i conti con le contraddizioni intrinseche dettate dallo stare contemporaneamente dentro e fuori dal patriarcato.
A voler spingere il discorso ancora oltre, si possono prendere in considerazione delle narrazioni che hanno completamente eliminato il male gaze, lo sguardo maschile.
Killing Eve, cominciata nel 2018, di Phoebe Waller-Bridge, riesce a rovesciare ogni tipo di stereotipo e cliché sessista abitualmente abusato nel genere noir. E non solo perché sia l’agente segreto sia l’assassino sono entrambe donne. Seguiamo due personaggi, Eve Polastri e Villanelle, attratte l’una dall’altra, entrambe protagoniste e antagoniste delle rispettive storyline. Villanelle non tentenna neanche per un attimo nel portare a termine il suo lavoro, senza inciampare nel prevedibile inghippo della donna che deve per forza essere depotenziata da un’emotività ingombrante che le impedisce di essere violenta. E l’agente Eve si muove nella sua missione con la testardaggine e l’ossessione di un eroe epico, viaggiando di città in città, lasciando a casa un marito lagnoso e sessualmente frustrante che non può competere con il fascino della caccia. Questi due personaggi sono la perfetta rappresentazione di tutto ciò che, in quel preciso genere, le donne non sono mai. L’attrazione che proviamo per Villanelle è la stessa e che prova Eve, e viceversa. Solo Villanelle vede Eve in un modo in cui gli altri personaggi non riescono. E questo ci porta a un altro discorso: le donne conoscono le donne. A fornire un ulteriore, recentissimo e ampiamente acclamato, esempio di questa dinamica c’è La Favorita, di Yorgos Lanthimos. Un film, non una serie stavolta, anche questo del 2018, che vede protagoniste la regina Anna Stuart, capricciosa, all’apparenza fragile e dalla salute malandata, l’astuta consigliera Sarah Churchill, con la quale la regina ha una relazione segreta da tempo, e la giovane e affascinante Abigail Hill, cugina di Sarah, che si infila tra le crepe della relazione tra le due donne e prende il posto di Sarah come “favorita” dalla regina allo scopo di recuperare la nobiltà decaduta. Si tratta di una storia di potere e prevaricazione. E come tutte le storie del genere non ha un lieto fine. Tuttavia, La Favorita consente a queste donne di appropriarsi di una serie di motivazioni (lussuria, desiderio, violenza, sopraffazione, vendetta, rabbia) usate e stra-abusate nelle costruzioni dei personaggi maschili. Nel triangolo tra le tre protagoniste viene fuori, come afferma Sarah Churchill (interpretata dalla splendida Rachel Weizs) che tutte e tre stanno combattendo battaglie diverse. E nessuna può infine vincere del tutto.

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foto di adam fossier

Violenza, desiderio, potere, vendetta, rabbia sono alla base anche della storia di Camille e Amma. L’autrice di Sharp Objects, Gillian Flynn, ha affrontate non poche accuse di misoginia nella sua narrazione del femminile che rifiuta l’abito di vittima immacolata. Flynn mette costantemente in scena personaggi che ci mettono a disagio e ci feriscono, basta ricordare come tra le pagine di Gone Girl (il libro, non il film – pubblicato in Itala da Rizzoli con il titolo L’amore bugiardo) ci siamo ritrovate (e, voglio sperare, ritrovati) a guardarci dentro nei nostri peggiori e inammissibili pensieri da compagne/compagni. Flynn ci alza uno specchio davanti e ci costringe a guardare, e come lo fa con la cool girl, lo fa anche con Amma in Sharp Objects, personaggio in cui rovescia lo stereotipo della brava ragazza di buona famiglia. Nella scena in cui Amma e Camille sono in giardino sull’altalena, di notte, la ragazza dice alla sorella maggiore, parlando di ragazzi: «When you let them do it to you, you’re really doing it to them. You have the control” (S01E07; “Quando lasci che ti facciano delle cose, in realtà sei tu che le stai facendo a loro. Sei tu ad avere il controllo”). Come Camille che usa la sua bellezza per estorcere informazioni, Amma trasforma lo stereotipo di genere in arma. Lo usa, lo manipola, se ne serve a suo piacimento per poi mettere in atto le violenze più atroci. Non è per niente una vittima indifesa e fragile, così come Adora, travestita da pallida e delicata madre amorevole, è impegnata in una strenua e costante affermazione di potere: impedire alle proprie figlie di crescere, lasciandole bambine bisognose e ammalate per sempre – sorta di enorme metafora della norma sociale che vuole le donne rinchiuse nel ruolo di vittime.
L’epoca dell’antieroe femmina rompe completamente lo stereotipo della donna buona, debole e indifesa. Le donne si formano dentro al patriarcato, e dentro questo stesso patriarcato reagiscono, usandone le regole e diventando esse stesse un pericolo.
Uno degli esempi più assoluti di rovesciamento dello stereotipo ci viene dato da Naomi Alderman in Ragazze Elettriche, un romanzo distopico del 2016, che come talvolta succede è arrivato prima ancora dell’insorgere del movimento #MeToo a presentarci delle questioni attualissime. Il perfetto titolo originale, The Power, include in sé il senso intero del romanzo. Una storia complessa e stratificata che narra di come, a un certo punto nel futuro, le donne si ritrovano in possesso di un potere, quello sempre e ancora in discussione: il potere di sopraffare gli uomini fisicamente. Il romanzo sembra partire da una domanda: cosa succederebbe se le donne fossero, improvvisamente, più “forti” degli uomini, capaci di far male anche solo con una mano? Ecco che l’intero paradigma di genere si sovverte e si ricompone al contrario. Donne potenti si ribellano finalmente a despoti e padroni, donne che riescono a sovvertire un sistema troppo a lungo imperante a loro svantaggio. È un mondo migliore? No. È solo un mondo in cui lo status quo viene sovvertito: un mondo in cui le donne hanno il potere e lo usano. Lo usano allo stesso modo in cui gli uomini usano quel potere nella realtà, e per lo stesso motivo: perché possono farlo. È più o meno lo stesso mondo, con gli stessi stupri, gli stessi abusi, le stesse sopraffazioni. Solo che i ruoli sono invertiti. Ed ecco venir fuori il discorso del potere, a cui “non interessa chi lo usa”, che resta sempre uguale a se stesso.
Il potere di far male a qualcuno si rivela essere una sorta di “privilegio”, una ricchezza. E il rovesciamento di genere rende il tutto, improvvisamente, palese e trasparente in modo inequivocabile.
Vi piace? No? E perché?
Non era bello essere cattivi?

immagine di copertina di ahmet sali

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  1. Pingback: Killing Eve: quando il tropo non è cliché | I LIBRI DEGLI ALTRI

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