A seguito della nostra call abbiamo ricevuto 106 racconti. Letti e selezionati dalla classe di Apnea ’20/’21, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione.
Questo è il dodicesimo, lo ha scritto Alessandro Busi e ha richiesto un editing che rendesse più esplicito il collegamento tra la prima e la seconda parte, introducendo il personaggio femminile. È stato lavorato dalla corsista di Apnea Paola Ascani prima e dalle caporedattrici poi. Correzione a cura della redazione, Francesca de Lena è intervenuta per eliminare il primo incipit, che appesantiva inutilmente.
Goffredo vive sentendo il peso della storia di suo nonno, omonimo eroe di guerra. Quando incontra Laura, astronoma e maga, grazie a lei scopre un nonno differente da come glielo avevano raccontato fino ad allora. Personaggi originali, immagini forti e una sensibilità autoriale che riesce a creare di un’atmosfera ricca di contrasti inaspettati.
di Alessandro Busi
Il cielo è un tetto sopra le case
quindi alla fine non usciamo mai
[Zen Circus, Appesi alla Luna]
Goffredo Lai si chiama come suo nonno.
Suo nonno Goffredo Lai era stato un eroe della Guerra Grossa. Così raccontava spesso Angelo Lai – unigenito di Goffredo il nonno, padre di Goffredo il nipote – un po’ per creare al figlio un’epica familiare e un po’ per ricordarla a sé stesso, che quel padre eroe non l’aveva mai conosciuto se non nelle storie.
Goffredo il nonno era partito per la Guerra quando aveva ventidue anni, quando la fidanzata Fiamma era incinta di un paio di mesi. Molti pensarono: Fiamma non l’ha detto a Goffredo per tenersi la libertà di abortire, vista la guerra, la fame e la lettera. Nella lettera lo Stato italiano comunicava a Goffredo Lai che la sua maculopatia all’occhio sinistro – «Vedo come tutta una nebbia», aveva riferito alla visita di leva dei diciotto anni – non era più una condizione sufficiente per l’esenzione dalla prova dell’uniforme. Fiamma conosceva troppo bene il suo uomo per non sapere come avrebbe reagito alla notizia della gravidanza: si sarebbe fatto prestare la Glisenti del suo amico Lorenzo Montini – che se l’era imboscata dall’altra guerra – e si sarebbe sparato in una gamba. «Quanto saresti messo male, come esercito, per mandare a combattere uno mezzo cieco e anche mezzo zoppo?», avrebbe detto ridendo prima di premere il grilletto. Fiamma, che aveva frequentato i Giorni di preparazione alla cura caritatevole, sapeva che dentro le gambe scorrono le arterie femorali e che, se un proiettile ne rompe le pareti, a meno che non si abbia un laccio per fermare l’emorragia – nella maggior parte dei casi, anche se si ha un laccio per fermare l’emorragia –, la vita esce fuori dalle cosce fino a diventare una macchia di sangue secca. Siccome non voleva che il suo amore si tramutasse in una macchia di sangue secca, valutò che ci fossero meno probabilità di prendersi una pallottola al fronte piuttosto che di beccare un’arteria sparandosi da sé. Gli avrebbe confessato tutto tramite lettera, decise, e poi lo avrebbe accolto alla stazione dei treni con il figlio in braccio e da quel giorno avrebbero eretto la loro vita insieme. Non sapeva, però, che il destino del suo Goffredo era quello di diventare eroe, tanto che tre anni dopo la fine della Guerra ricevette una medaglia al valore.
Erano anni in cui lo Stato inviava medaglie al valore a tutte le famiglie dei caduti, ma ogni famiglia riusciva a convincersi che il proprio caro quella medaglia se l’era meritata per davvero. Così nacque l’epica di Goffredo l’eroe che partiva per la guerra senza esitazione, combatteva valoroso nonostante la vista zoppa, poi veniva catturato in un’imboscata e bastonato fino a spaccargli la cassa toracica e fargli collassare i polmoni.
Mentre moriva soffiava il nome della sua Fiamma che, a decine di migliaia di chilometri, sentiva il richiamo, si teneva la pancia e diceva fra le lacrime: «Lo chiameremo Angelo, perché questo bambino è il nostro laccio che unisce la terra con il cielo».
La storia delle ricostruzioni accademiche racconta di una brutta infezione intestinale che falcidiò l’intero battaglione di Goffredo prima ancora che potesse combattere. Qualcuno dei colonnelli, per farsi scudo con i generali irritati, parlò di avvelenamento per mano del nemico, ma nessuno ci credette. Questa versione dei fatti, però, serve giusto a qualche storico ossessivo. Di certo non serve a Fiamma, né ad Angelo e men che meno a Goffredo il nipote che, nei momenti di difficoltà, si è sempre fatto forza ricordandosi che il suo nome è inserito dentro una storia più grande, fatta di guerra, vista annebbiata, eroismo, ossa rotte, polmoni che smettono di funzionare, sangue e amore; una storia della quale deve essere all’altezza. Ma orgoglio e peso sono matrioske: quando si apre uno, ecco che compare l’altro.
Angelo Lai aveva imparato questa alternanza fin da bambino, con la madre che sapeva le cose giuste da fare e le ciglia sempre sull’orlo di lasciar andare le lacrime. «Angelo è emotivo», diceva sua moglie e madre di Goffredo, Vera Finzi, «Ma a me non dà fastidio». E non mentiva, anzi. Vera avrebbe dovuto dire che era stato proprio quel carattere mansueto ad averla conquistata. Gli altri erano così aggressivi, forti nei modi, imponenti nella personalità. Angelo la rispettava, le chiedeva il permesso prima di baciarla, non voleva che lei scendesse giù con la bocca – “vai più giù con la bocca”, citazione di un suo ex: storia molto breve, errore molto grande –; lui voleva solo che fosse felice.
Quando andarono a Roma per il Giubileo, prima di lanciare le cento Lire nella Fontana, Angelo bisbigliò: «Desidero il bene di mia madre che mi ha cresciuto da sola, di Vera che mi ama come sono, e di Goffredo che è il mio futuro». Si gettò alle spalle la moneta senza poter distinguere il proprio plof da quello delle altre centinaia di desideri che si tuffavano nello stesso momento.
«Ho sentito quello che hai detto», gli sussurrò Vera nell’orecchio. E gli fece l’occhiolino. Anche lui, tuttavia, aveva sviluppato il suo personale modo per farsi valere nelle relazioni. Con le lacrime ringraziava, chiedeva di non essere abbandonato, di ricordarsi quanto fosse buono, di vedere quanto era ferito, otteneva di essere accontentato. «Chiamiamolo come mio padre», piagnucolò alla moglie ancora sudata dal parto, «Ti prego».
Ci sono alcuni Stati che mandano ai neonati delle scatole con i primi calzini, la prima maglietta, i primi pantaloni, il taccuino su cui annotare i denti che perderanno. Sono oggetti neutri e che hanno a che fare solo con le cose pratiche della vita. Anche Goffredo ricevette la propria scatola di benvenuto al mondo, anzi due. La prima, quella del suo nome e dell’eroismo che portava con sé, ne conteneva un’altra: quella del suo vecchio, non meno importante, fatta di altruismo e lacrime. A queste si sarebbero aggiunte tutte le altre raccolte durante la sua vita dalle maestre, i colleghi, le ex fidanzate, il fornaio, la giovane maga che guardava in televisione quando era a casa in malattia e che sembrava sapere tutto di tutti e chissà cosa avrebbe detto di lui… Perché per Goffredo ogni incontro significava entrare in un microsistema predeterminato e calcolato con una formula standard: base per altezza per aspettative per coperchio chiuso in cima, un microsistema che non dava risultato neutro, mai. Con questo sistema di scatole Goffredo imparò a tenere alta la combattività del nonno sul campo da calcio ma senza dimenticare il fair play; a prendere buoni voti come disponeva sua madre; a dare a suo padre i numerosi abbracci che desiderava, a sentirne la barba umida sul collo. Goffredo si laureò in legge: «Lo diceva sempre la nonna, no? Bisogna dare giustizia ai giusti». Trovò lavoro nell’ufficio reclami dell’azienda municipalizzata, si fidanzò con Margherita Autieri e l’anno successivo la sposò, estraniandosi dalla cerimonia solo per qualche secondo e guardandosi orgoglioso da fuori: tutto era al posto giusto, tutti erano felici. Al prete, rispose che amava Margherita perché era responsabile. Lei disse che amava Goffredo perché era premuroso.
Durante la settimana bianca del terzo anniversario, Goffredo faticò a dormire, ma preferì non dirlo alla moglie, né lei gli chiese il perché delle occhiaie. Lui cercò qualche strategia di rilassamento su internet e, una volta a casa, iniziò un corso online di meditazione e yoga. Funzionò. Ogni mattina Goffredo si metteva a gambe incrociate in salotto e dedicava la prima mezz’ora della giornata da sveglio a visualizzare i contrappesi del suo sistema di scatole, nella speranza di non scontentare nessuna delle persone che gli volevano bene e a cui voleva bene: il suo sensibile padre, la dedita madre, la memorabile memoria del nonno, l’ormai anzianissima e sapiente nonna, la splendida moglie. «Tutto qui il mondo?», pensa Goffredo.
È seduto sul tappeto anche se dovrebbe stare in piedi, avere una gamba parallela al terreno e le braccia aperte; si morde la pelle indurita attorno all’unghia del pollice destro. Pensa alla propria vita come se fosse rinchiusa dentro all’archivio alfabetico dell’azienda. Gli basta estrarre un faldone per riconoscere gli estremi del richiedente, le lamentele che porta e la strategia di mediazione migliore da mettere in atto. «È questo che so fare».
Alla lettera y – yoga vinyasa, sincronizzazione del corpo con il respiro – Goffredo trova una cartella piena di istruzioni che non sa più capire. Il busto si disarticola, le braccia si sollevano asincrone rispetto all’ampliamento del petto, le gambe si incrociano come ai contorsionisti nei film da ridere. «Chi mi sono creduto di essere?» L’istruttore dentro lo schermo del computer stropiccia le labbra, scuote la testa, lo fissa, mentre tiene la posizione di urdhva mukha svanasana, il cane con la faccia all’insù: «È questo che ti ho insegnato?», domanda.
«Buongiorno», gli dice Margherita. Quando lei entra in sala, il video è già spento, il tappetino è sistemato, il caffè è da versare, i biscotti di riso e farina di mais – quattro – sono disposti su un piatto decorato con una coppia di galline ovaiole bianche e rosse. «Non fai colazione?», chiede lei. Lui le dà un bacio sulla cima della testa, ma stamattina non ha appetito, dice. Si chiude in bagno, si lava i denti, si cambia, si specchia: prova il sorriso più convincente che gli riesce.
«Buona giornata», gli dice Margherita. «Stasera tardo…», sussurra lui, mentre si sta chiudendo la porta d’ingresso alle spalle. Alla mattina, quando la tangenziale è bella intasata, Goffredo ci mette fra i diciotto e i ventidue minuti per arrivare al lavoro. Come è possibile che sua moglie non si sia mai chiesta perché, alla sera, di minuti ce ne metta a volte sedici, ma talvolta novantatré?
Laura Simone, con i Lai, non ha mai avuto nulla a che vedere.
Il ceppo familiare di Laura corse lungo le dominazioni normanne in Sicilia, salì fino alla Basilicata dove si stanziò e si allargò, fino al secolo delle fabbriche, quando il nonno di Laura fece quello che si vede nei documentari in bianco e nero: benedetto in fronte da un bacio di sua madre, salì su un treno e impiegò le sue mani per la Fabbrica di automobili. Verso la fine di un turno di lavoro uguale agli altri si distrasse e maciullò l’indice e il medio di destra. Dopo le grida e le sirene, tutto si risolse con due amputazioni, tanti punti di sutura, una piccola integrazione di invalidità in busta paga e la rassegnazione di non poter più fare la pistola con le dita al barista del dopolavoro quando gli correggeva il caffè prima che lo chiedesse. Nonostante ciò, il nonno di Laura si sposò e fece la sua parte nel concepire figli, tutti nati in casa e benedetti dalla nonna. Il terzo lo chiamarono Michele Simone e sarebbe diventato, dopo ventisette anni, il padre di Laura.
Laura nacque nella stanza sette del reparto di ostetricia dell’ospedale in un giorno nebbioso di novembre. Secondo i dottori, gli organi interni non avevano ultimato la formazione delle loro pareti perché la bambina era stata nella pancia di sua madre per troppo poco tempo, così dovette passare un paio di mesi chiusa dentro una scatola calda che aveva la pretesa di imitare un utero. Quell’utero di policarbonato, le cure dei medici, la stanza buia e il latte di sua madre tirato da un marchingegno e dato alla bambina da un’infermiera, fecero il loro dovere. Laura fu accarezzata dalle mezze dita del nonno e benedetta in fronte dalla bisnonna pochi giorni dopo l’inizio del nuovo anno; imparò a parlare cominciando con la parola «Atta»; corse, senza mai esagerare, durante le prove campestri; si imbufaliva con suo padre che sbagliava a comprarle gli assorbenti; studiò astronomia fino al dottorato specializzandosi nei differenti tipi di collasso delle stelle a bassa metallicità.
Solo la sua vita sentimentale non progrediva. Il problema era che Laura con le persone si annoiava. «Come è possibile che conosca frammenti del loro passato che non mi hanno raccontato?», chiese a una maga televisiva che contattò telefonicamente fuori onda.
«Fammi vedere, tesoro».
La maga mugugnò, si zittì, poi riprese.
«Ecco, molto bene», disse. «Tutto ruota attorno alla tua nascita prematura. Sembra che ci sia stato un errore di consegna, quindi lo Spirito Santo ha voluto ricompensarti regalandoti il potere di leggere le storie delle persone».
«Mi sta dicendo che è un dono?», chiese Laura. «Questo dipende da te…».
Laura diventò ospite fissa nella trasmissione della maga e scoprì quanto le persone bramino ficcanasare nella propria storia alla ricerca di particolari che ne cambino le implicazioni. “Come se il tempo si srotolasse in modo lineare”, sogghignava fra sé dopo le dirette, “come se una cosa ne causasse per forza un’altra”. Immersa nel nuovo ruolo, mise da parte l’astronomia, e poté viaggiare in luoghi esotici, togliersi qualche sfizio sul vestiario, comprarsi quei gioielli di perle che la maga le sconsigliava di comprare. Questa storia dei poteri durò per un paio di anni, ma presto anche la televisione diventò una confezione noiosa. «Te ne pentirai», la minacciò la maga, che si dimostrò solo una ciarlatana perché Laura non si pentì mai. Partecipò a un bando di ricerca, tornò a dedicarsi ai collassi delle stelle e – «Solo per un po’», si promise – ridusse all’osso le relazioni interpersonali.
Per questo, alle 16 e 33 di un mercoledì pomeriggio, quando sente il telefono che le vibra in tasca e vede un numero che non conosce, risponde, ma con la voce scocciata.
«Salve, sono Goffredo Lai. Cercavo la maga Laura».
Lei sbuffa.
«Mi sente?», chiede Goffredo.
«La sento. La maga Laura non esiste più».
Mentre sta per riattaccare, viene sommersa dal silenzio dell’altra persona: «Per cosa la cerca?».
«È lei?».
Silenzio di nuovo.
«Sono io. Non sa che ho smesso di esercitare?».
«Non lo sapevo, mi scusi».
Laura pensa che è proprio quello il problema delle relazioni, che sono un dovere dietro l’altro, poi dice: «Mi dica».
Quando si vedono la prima volta, Goffredo racconta a Laura la propria storia nei minimi dettagli, scatole comprese. Le dice che ha bisogno di capire.
«Che novità», sbuffa Laura nei pensieri.
«Come si fa», si lamenta Goffredo, «A essere all’altezza di un bel ricordo?».
Lei lo fissa per una quantità di secondi che supera il livello dell’imbarazzo. Gli mette le mani sulle tempie e disegna dei cerchi con i polpastrelli, ma per quel giorno non parla. Lui torna a casa pensieroso, «Mi devo fidare», si dice, e intanto imbastisce scuse plausibili da raccontare a Margherita per nascondere il ritardo. Non servono. Ci vogliono sette incontri prima che Laura gli chieda: «Sei sicuro?».
Lui annuisce: «Ti prego».
«E se cambiasse tutto?».
«Non ce la faccio più».
Laura chiude gli occhi e inquadra un bel ragazzo intorno ai ventidue anni che ci vedeva tutto annebbiato. Sente l’amore che provava quel ragazzo per la sua fidanzata e capisce che, anche se non erano sposati, una domenica pomeriggio fu lei a insistere per fare l’amore in mezzo al tarassaco e alla borragine perché sapeva che lui lo desiderava.
All’incontro successivo, Laura abbraccia Goffredo e riprende a parlare, ma di sé. Gli racconta della sua bisnonna che faceva la fattucchiera, ma solo di magia bianca, e degli astri che collassano. Gli spiega che alcuni diventano buchi neri, altri si tramutano in stelle di neutroni, altri ancora generano novae e supernovae ed è difficilissimo sapere prima cosa può accadere.
«Dipende dalla quantità di metalli che…».
«Non preoccuparti», la interrompe Goffredo, «non sai se mi piacerà quello che scoprirò, ho capito. Correrò il rischio».
Poi viene il giorno in cui Laura chiede a Goffredo di togliersi i vestiti fino a restare nudo.
Lui ubbidisce.
Anche lei si spoglia.
«Non guardare», dice. Si stende accanto a lui nel suo letto a due piazze con il copriletto blu. Gli prende la mano e gli racconta del viaggio in treno di Goffredo il nonno, delle sigarette che erano fatte di tabacco e fogli di giornale, degli stivali troppo larghi, del commilitone che, per non essere mandato a combattere, aveva proposto al maresciallo un pompino, ma si era preso tante botte e una pallottola in viso ed era stato scaricato in un fosso, con la mascella a penzoloni. Laura si avvicina e posa le labbra sulla fronte di Goffredo.
Suo nonno vedeva e non vedeva, capiva e non capiva. Se ci fossero stati i test psicologici, facile che sarebbe passato per ritardato, ma a nessuno importava, bastava che sapesse sparare dalla parte giusta, mica doveva capire il mondo. Quando il cuoco gli chiese di mettere il sale nell’acqua della polenta, Goffredo il nonno non decifrò la scritta sulla confezione, prese il barattolo di soda caustica e ne lasciò cadere una bella quantità, poi continuò a vantarsi con il nuovo amico delle imprese erotiche che (non) aveva fatto con la sua Fiamma. A fine giornata, il battaglione era sterminato. Morirono tutti sputando sangue e lamentandosi come cani sbranati. Goffredo il nonno fu gettato in una fossa comune una volta spogliato dell’uniforme e degli stivali. Con il fatto che non aveva avuto il tempo di combattere, i becchini avevano pensato che sarebbero stati buoni per una nuova recluta. Un generale prudente, però, non sapendo davvero di cosa diavolo fossero morti quei maledetti, diede ordine di bruciare vestiti, lenzuola, piatti, pentole e posate assieme ai corpi.
«Sì», ribadì, «anche se è tutto quasi nuovo di pacca».
Goffredo vede il corpo di suo nonno che si riempie di bolle nere e poi si scioglie, le labbra che si rimpiccioliscono fino a diventare linee di polvere, i capelli che si alzano nelle fiamme dimenticandosi che sono attaccati a un corpo morto. Abbandona la mano di Laura, stropiccia il blu del copriletto, piange come suo padre, più di suo padre, storce le labbra nel lamento, lascia che il muco del naso gli coli fino alla lingua.
«È per questo che ho faticato tanto? È questo il nome che porto?».
Laura tiene la bocca sugli occhi di Goffredo. Vede il suo mondo che collassa, risucchiato da un buco nero di senso; la storia smette di essere la parte nota del tempo e le scatole dei giorni si confondono: «Chi sono gli eroi? Dove sono il bene e il male? Cosa è giusto? Cosa è sbagliato? Chi cazzo devo essere?».
«È troppo», pensa Laura.
«Basta», dice, «Te l’avevo detto. Ti porto dell’acqua».
Fa per alzarsi, ma lui le mette un braccio sulle clavicole, la schiaccia accanto a sé. Lei scuote la testa, ma fa la cosa che sa fare: riprende a parlare.
La cenere si raffreddò con l’umidità della notte e fu assorbita dal terreno. La macchia marrone scuro di terra bruciata si ricoprì di corvi che, attirati dall’odore, ma delusi dal solo pulviscolo che era rimasto da beccare, se ne volarono via. Dopo quarantatré giorni, i generali firmarono l’armistizio.
Goffredo si pulisce la bocca con la manica. Rimane una scia luminescente sul polso.
«Mi dispiace», dice lei.
Fuori dalla finestra e nella luce che diminuisce, i palazzi tornano a costruirsi con tutte le loro scatole, uguali a sempre e nuove di pacca. Goffredo pensa: «Rieccolo il mondo». Inspira ed espira con cura, come fa ogni mattina fra le sette e le sette e mezzo, anche se non sono né le sette, né le sette e mezza. Allenta la presa con cui teneva Laura inchiodata al letto.
«Va meglio?», gli chiede lei.
«Credo di sì».
Laura sorride, anche se ha un canino scheggiato e di solito se ne vergogna.
«Grazie», dice lui.
Lei gli prende la mano e se la porta in grembo, distendendo il palmo accanto all’ombelico sporgente. Mentre entrambi puntano il naso al soffitto stellato di sticker fluorescenti, gli racconta la sua nascita prematura e l’utero di policarbonato.
Gli chiede: «La mia pancia, ti sembra una scatola?».
Lui apre gli occhi, la guarda e scuote la testa, si vergogna dell’erezione involontaria.
«Scusa», dice. E poi ridono assieme.
Pingback: Racconto “Tutto qui il mondo?” su ILDA – Come un cane sulla luna