di Riccardo Capoferro
Non so dire con chiarezza perché scrivo. A un dato momento della mia vita – forse tardivo – voci, visi, chiaroscuri, scorci di luoghi immaginari hanno iniziato a mulinarmi in testa: un ronzio di mosche che si è via via ingrossato, fino a diventare, nel corso degli anni, un sonoro battito d’ali. Potrei provare a spiegare razionalmente, con uno sforzo di astrazione, i processi da cui tutto è scaturito, ma preferisco raccontare quel che ho vissuto. Dunque lo racconto. Quel turbinio di cose inesistenti, che spesso mi distraeva da cose più serie, si è rivelato presto bisognoso di cure, di un’attenzione vigile. Mi sono ritrovato, così, a inseguire l’aria, a prenderla tra le mani e modellarla.
Non è un’arte che si impara dal niente: ha richiesto pazienza, e lunghe conversazioni con dei fantasmi. Ma è stata prodiga di piaceri: il piacere di sentire il linguaggio che si sveglia; di vedere pallide ombre del pensiero che allignano nel mondo sensibile e diventano visioni, emozioni, azioni; di coltivare piccoli viluppi di esseri e cose, e di aiutarli a prender corpo: un microcosmo che potrebbe essere il mio stesso cosmo. Scrivo, infatti, non solo per esplorare il mio linguaggio. Scrivo per pensare. Ma non con la logica, bensì con le storie: per annodare i capi della mia esperienza e sondare le mie sensazioni; per trarne la calce, il legno, i vetri, ma anche il calore, la luce e il sangue di ciò che immagino.
Non posso negare, certo, che a muovermi sia stato anche il sogno – probabilmente empio – di infondere vita, di far sì che pur essendo una mia emanazione la storia che scrivo sia libera da me, che si avventuri in luoghi che non ho mai visto – una fattoria su una pianura lontana, il vagone di un treno locale, una biblioteca dall’altra parte della città –, che si incammini nello spazio e nel tempo. Non posso negare di aver sperimentato, attraverso la scrittura, non solo l’immersione nella mia coscienza e in ciò che la attraversa, ma anche il desiderio di offrire al mondo una cosa viva.
È forte, in effetti, la tentazione di definire la mia dedizione alla scrittura e gli slanci di cui si nutre non attraverso la figura dell’aedo, del bardo, del cantastorie, o del censore dei costumi, ma attraverso quella del creatore di vita artificiale, il cui sogno non è forgiare un automa, ma, appunto, una creatura vivente, dotata di anima e di intelligenza, in grado di dire e mostrare cose che lui stesso non aveva compreso. Scrivo, quindi, affinché le mie parole dicano qualcosa che a me sfugge.
A sua volta, però, la metafora della creatura potrebbe risultare fuorviante. Non scrivo, infatti, per descrivere una forma o un viso umano – un viso che potrebbe, ahimé, essere il mio – ma per tendermi oltre i limiti di ciò che sento, per far sì che l’organismo che sto plasmando riesca, chissà come, a trascendere il mio disegno.
Scrivo per scoprire quel che sento e per sfuggire alla sua morsa. Ho sempre avvertito, del resto, un’ansia di fuga, vaga ma difficile da mitigare. Da bambino e poi da ragazzino disegnavo deserti, galeoni e razzi ai lati dei miei quaderni, e, poco più tardi, abbozzavo versi oscuri, che lasciavano intravedere altre realtà.
Scrivo, dunque, anche per fuggire, per trovarmi in luoghi e tempi diversi dal mio; non solo per cavare dalla mia esperienza qualcosa di visibile e tangibile, ma anche per non cedere sotto il suo peso. Per accendere i miei sensi, proiettandoli verso ciò che non vedo, e levitare davanti alla mia scrivania: per disancorarmi, con la mia penna, il mio quaderno e la mia tastiera, da un suolo carico di polvere e cenere (la polvere, certo, si accumula, specialmente mentre sto scrivendo, e negli anni ho imparato a spazzare – e a fantasticare di aspirapolvere prodigiosi).
Credo, quindi, che la mia scrittura trovi un impulso anche nella sua capacità di trasformarsi, che si nutra del mutare dell’esperienza e sia essa stessa esperienza di mutamento. La scrittura è movimento; è un cammino lento e deciso che assomiglia a un’ascensione in un mattino brumoso, o a una corsa su prati scoscesi, nel sole; o alla scelta meditata del tratto di roccia su cui avanzare, dal sasso su cui poggiare gli scarponi. È, almeno per me, una fuga dalla fissità, il tentativo di spaccare il corpo fossile che mi rinchiude, i meccanismi che mi costringono; è un balzo nel futuro o nel passato, in un universo simile a questo, che si lascia contemplare nel suo fulgore o nel suo orrore.
Se fuggo, però, non è per restar solo, ma per sentire tutti vicini: i vivi, i morti e i vivi e i morti del mondo a venire. So che non è vera vicinanza, che intorno ho solo simulacri, costruiti allacciando parole e scegliendo sinonimi; o sguardi immaginari, gli sguardi di qualcuno che non ho mai visto: scrivo, infatti, anche per creare una comunione con qualcun altro: perché il magma della sua esperienza possa adagiarsi nelle forme che ho costruito: o perché quelle stesse forme si adagino nella sua mente e si lascino avvolgere dai suoi pensieri, come un relitto che si copre di alghe.
Scrivo, dunque, per avvicinare i vivi, i morti e chi non è ancora nato; per annodare non solo i capi della mia esperienza, ma anche i fili sparsi della realtà; per ricavare intrecci dal tempo che passa.
A volte, però, mi assale il sospetto che le mie ore al telaio siano, a loro volta, perdita e spreco: che erodano il tempo della vita, e che cercando di dar forma a ciò che è perduto mi stia perdendo a mia volta; che nell’evocare creature inesistenti stia togliendo il tempo ai vivi che mi circondano, senza i quali non saprei cosa scrivere, né avrei voglia di farlo.
Riccardo Capoferro (1975), insegna Letteratura inglese alla “Sapienza” di Roma. È autore di saggi sulle origini del romanzo moderno, sulla narrativa di Joseph Conrad, sulla cultura italiana del Novecento – in particolare su Calvino, Celati, Primo Levi e Hugo Pratt – e sui legami tra letteratura e fumetto. Il suo romanzo d’esordio, Oceanides, ha ottenuto la Menzione Speciale della Giuria alla XXXIII edizione del Premio Italo Calvino