la verità vi prego
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La verità vi prego: scrivere di una cosa alla volta

“La verità, vi prego” è la posta del cuore della scrittura: inviami un tuo racconto o il primo capitolo del tuo romanzo e ti scriverò una lettera di valutazione franca, pubblica e gratuita. Per sapere come funziona leggi qui.

La lettera di oggi è per *Anna* e l’incipit del suo romanzo “Recidiva di un amore”.

[Chi è *Anna*: Sono una psicologa, ho 32 anni e vivo a Firenze dove mi occupo di psicologia giuridica e di adozioni internazionali. La lettura e la scrittura sono sempre state le mie passioni più grandi. L’idea di questo romanzo nasce dal desiderio di raccontare la relazione terapeutica, tutto quello che si consuma in una stanza di terapia esclusivamente dal punto di vista della paziente. Un amore che non è amore. O forse sì, da un altro punto di vista.]

Cara Anna,
quando si scrive si ha spesso l’esigenza di dire molte cose insieme, perché fino a quel momento non si erano dette o perché si conosce la buona norma del “riempire la pagina”, ma non del tutto o non ancora quella della “progressione”. Nel tuo incipit ci sono parecchie immagini sulle quali io mi soffermerei volentieri, perché sono riuscite e sono coinvolgenti e io vorrei che me le mostrassi in maniera più approfondita.

La profondità non è solo una questione di tempo (è soprattutto di simbolismo: quell’immagine cosa rappresenta? Che funziona ha?) ma lo è anche di tempo. Quando leggiamo un romanzo abbiamo bisogno della giusta durata per entrare dentro alle cose, vederle bene, e uscirne un attimo prima che si esauriscano (prima, e non quando già esaurite: qualcosa bisogna sempre lasciarla vuota).

Tu cominci con dei tacchi, e la prima immagine è già riuscita, soprattutto perché prende posizione: “I tacchi alti. Dagli otto centimetri in poi altrimenti non sono tacchi.” Li metti in azione per una scena del passato, poi li chiudi in una scatola: “Quegli stivali sono ancora in una scatola gialla nel mio armadio, nonostante tre traslochi”.

E io lì penso: di già? Dunque il simbolismo dove mi porta? Ma mi accontento, felice che ci sia stata un’apertura, un’azione e una chiusura, e sperando di ritrovare i tacchi più tardi. Invece li ritrovo all’accapo, ed è troppo presto, e non è più così incisivo perché li usi in forma di elenco “Li ho messi anche”, “E li avevo anche” e li mescoli ad altre percezioni fugaci e metaforiche, che non hanno alcuna funzione nella storia “del rosso del semaforo” “la ruvidità dell’asfalto”, mentre i tacchi sì. (O no? E allora anche loro…).

Dopodiché arriva il conflitto, che non è con Flavia – la collega che sostituisce la protagonista Cloe perché lei si è fratturata la tibia, occupandosi al suo posto di un servizio fotografico a cui teneva molto – ma con quello che Flavia rappresenta:

[la] personificazione vivente dei personaggi delle pubblicità che si svegliano felici e sorridenti tutte le mattine. Quelli a cui va sempre tutto bene, per capirsi. Quelli che si prendono i servizi fotografici già pronti degli altri. Quelli come Flavia.

Dunque sappiamo cos’è Flavia, e della protagonista dovremmo intuire quello che non è. Costruire un personaggio “in sottrazione” è un buon procedimento, ma bisogna stare attenti a non caricare troppo il termine di paragone – come ti succede con Flavia:

Quella che con l’umidità folle a 100 gradi riesce a far stare i capelli lisci e setosi come fosse una parrucca, mentre se fa caldo diventano ondulati, morbidi, carezzevoli come una appena uscita dall’acqua salata. Quella che il suo fidanzato le regala un diamante ogni anno. Sì perché lui è uno di quelli che il per sempre si costruisce a poco a poco e lo vuole dimostrare concretamente. Ha già all’attivo sette diamanti in serie matrioska. Fra pochi giorni è il suo compleanno, lei spegne i carati, non le candeline come tutte noi.

perché l’assenza d’informazioni sull’una non venga scolpita attraverso la presenza di informazioni – stereotipate invece che specifiche – sull’altra (è di quelle che).

Bisogna fare attenzione anche al non sostituire l’assenza di informazioni (che ovviamente non può durare troppo) con la vaghezza di informazioni: affastellare le prime pagine di riferimenti che chissà quando verranno ripresi:

Sono incazzata come il corvo nero sulla spalla di quel ragazzo di tanti anni fa con la faccia da cane bastonato.

quella vacanza in Sicilia

quando improvvisamente mio padre ci disse che bisognava fare le valigie per tornarcene a Firenze.

e di personaggi che chissà quando dovranno comparire e chissà a cosa dovranno servire – Eugenio, Dario, Veronica – quando ce ne sono già di altri in scena e con un ruolo che va approfondito e sviluppato: Margherita, Fabrizio Fortunati.

Ed è nello sviluppo della storia – dei personaggi, delle dinamiche, degli obiettivi – che devi concentrare la tua attenzione. Un passo alla volta. E, sempre!, in avanti. Che la protagonista abbia un compito a breve termine da svolgere ce lo hai già detto, anche troppe volte:

Il caro diario della giornata messo per iscritto. Sto facendo i compiti a casa da brava bambina.

È stato allora che mi sono ricordata che dovevo scriverti e quindi, prima di addormentarmi, lo faccio.

Sì, ti ho scritto come mi avevi detto di fare, ma non è la stessa cosa, anche perché ho saltato una serie di volte in cui avrei dovuto farlo e invece non l’ho fatto.

Adesso dicci altro.

Un caro saluto,
Francesca de Lena

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photo by joel on unsplash

RECIDIVA DI UN AMORE

I tacchi alti. Dagli otto centimetri in poi altrimenti non sono tacchi. Campana, zeppa, rocchetto, spillo, stiletto, quadrato. Invernale, estivo. Sempre tacco.
La prima volta avevo quindici anni: stivali di pelle nera con tacco quadrato, otto centimetri, per la prima festa in discoteca. Ricordo di aver gridato mentre scendevo dallo sgabello del bancone e un ragazzo con un tatuaggio a forma di corvo sulla spalla mi aveva pestato un piede. “Scusami scusami”, mi disse. Gli occhi imploranti come un cane bastonato, altro che corvo nero in volo. Mi alzai di scatto per correre in bagno quasi zoppicando, facendomi largo tra braccia alzate e fianchi stretti al ritmo di “I just called to say i love you”. Il bagno a luci blu rifletteva le sagome di due ragazzi spinti contro il muro a baciarsi e mi rifugiai dietro la porta del primo servizio mettendo il piede colpito sopra la tazza. Scrollai con un po’ di carta igienica l’impronta della suola del ragazzo con il corvo e osservai minuziosamente la pelle. Una piccola riga sul lato sinistro, pensavo che forse col tempo sarebbe andata via. Non è stato così. Quegli stivali sono ancora in una scatola gialla nel mio armadio, nonostante tre traslochi.
Li ho messi anche la prima volta che sono venuta da te. E li avevo anche oggi, all’incrocio tra Via Contessina e Via Magnifico. Gli auricolari alle orecchie per decidere il prossimo servizio fotografico con la nuova modella russa. Non mi sono accorta del rosso del semaforo, stavo guardando una coppia che si teneva per mano sul marciapiede. Ho sterzato col manubrio mettendo il piede a terra, ma il tacco sull’asfalto ha ridotto il mio equilibrio facendomi cadere a terra.
Quello che ricordo è solo la ruvidità dell’asfalto sul gomito che già bruciava dai tagli.
Un rumore alternante di clacson e di gridolini. Poi l’asfalto ruvido e umido. E infine il taglio bruciante.
Diagnosi: frattura della tibia più quattro punti al gomito. Prognosi: quattro settimane.
Prognosi dei miei stivali: da buttare.
Dovevo essere davanti a quelle modelle con la nuova collezione di Indaco, io e il mio obiettivo, le luci, il tendone bianco. Dovevo farlo io quel servizio fotografico. Avevo studiato ogni posa, ogni movimento, persino la gradazione del colore del rossetto. Amarena, carminio, magenta, lampone. E poi scarlatto.
Invece c’è Flavia. Sostituita così, come un paio di mutande vecchie.
Sono incazzata come il corvo nero sulla spalla di quel ragazzo di tanti anni fa con la faccia da cane bastonato.
Cloe non può venire? Chiamate Flavia.
Quella che con l’umidità folle a 100 gradi riesce a far stare i capelli lisci e setosi come fosse una parrucca, mentre se fa caldo diventano ondulati, morbidi, carezzevoli come una appena uscita dall’acqua salata. Quella che il suo fidanzato le regala un diamante ogni anno. Sì perché lui è uno di quelli che il per sempre si costruisce a poco a poco e lo vuole dimostrare concretamente. Ha già all’attivo sette diamanti in serie matrioska. Fra pochi giorni è il suo compleanno, lei spegne i carati, non le candeline come tutte noi.
Quella che, insomma, hai bisogno di toccarla per vedere se sia finta o fatta di carne, sangue e peli sulle braccia (che ovviamente non ha). Ebbene, mentre ricucivano la pelle del mio gomito e mi infilavano un tutore a sette stecche, sono stata sostituita da lei, dalla personificazione vivente dei personaggi delle pubblicità che si svegliano felici e sorridenti tutte le mattine. Quelli a cui va sempre tutto bene, per capirsi. Quelli che si prendono i servizi fotografici già pronti degli altri. Quelli come Flavia.
Sono tornata da poco a casa imbottita di antidolorifici.
Sai che mi stavo quasi dimenticando di avvertirti? Poi per fortuna ho letto l’etichetta sulla divisa dell’infermiere che si chiama come te e mi sei venuto in mente.
Va bene così? È così che devo fare, no?
Il caro diario della giornata messo per iscritto. Sto facendo i compiti a casa da brava bambina. Magari così divento come Flavia.

Bozza salvata il 20 ottobre alle ore 14:50

Margherita si è trasferita qui da me. “Per aiutarti con la gamba.” La mia gamba sembra essere diventata una parte di me isolata, una persona in più in casa, una coinquilina assillante con cui dividere le faccende e il sonno. Quindi, da due settimane, siamo in tre. Margherita fa la spesa, fa la lavatrice, stira, prepara il pranzo e la cena. La colazione no. Quella la preparo io, con la sedia a rotelle. Tè, caffè, spremuta d’arancia. Ieri ho rovesciato la tazzina sulle ginocchia, però. Il pollice ha mancato il manico per un istante ed è caduta sul bancone della cucina che si è subito colorata di caffè. Sono riuscita a riprenderla prima che si frantumasse. L’ho solo sbeccata. L’orlo bianco e spigoloso spuntava come l’Etna confuso tra le nuvole durante quella vacanza in Sicilia. I miei genitori che si tenevano per mano sulla spiaggia, mentre il vento faceva svolazzare il pareo giallo di mamma. La brioche con il gelato, la granita al gelso, il cannolo che non ho mai voluto mangiare, neanche l’ultimo giorno, quando improvvisamente mio padre ci disse che bisognava fare le valigie per tornarcene a Firenze.
“Clò, mangia un cannolo che poi non lo rivedi più”, scherzava mia madre mangiandosene uno.
Tenni il broncio per tutto il viaggio di ritorno in traghetto e poi sul treno. Il caldo di quell’estate s’appiccicava alla pelle come la crema di ricotta sulle labbra di mia madre.
“Ma perché dobbiamo tornare? Dovevamo stare ancora quattro giorni”.
E mia madre non rispondeva.
“Ti prometto che aspetto due ore prima di fare il bagno la prossima volta. Prometto, prometto, prometto. Non lo faccio più. Diglielo a babbo, ti prego mammina.”
Continuava a mangiare, mia madre, guardando verso la punta sbeccata dell’Etna, con le valigie pronte in terrazza e il costume intero a margherite ancora addosso.
“Cloe, che faccio? La butto?”
Margherita tiene la tazza tra le mani di fronte a me.
“No”, rispondo.
Voglio tenerla, la tazzina sbeccata.
“Sei mai stata in Sicilia, Marghe?”
“Magari. No, mai. Mi piacerebbe, però.”
“Organizziamo, la prossima estate?”
Mi guarda perplessa.
“Ma come ti viene in mente, adesso?”
Mi rigiro tra le mani la porcellana e con l’indice sfioro la crepa della tazzina.
“Così, mi andava di fare una vacanza. Magari invitiamo anche Eugenio, Dario.”
Margherita finisce di bere il succo d’arancia e si asciuga gli angoli della bocca con il tovagliolo.
“Si può fare. Ma ancora c’è tempo. Però l’idea di mangiarmi un bel cannolo in riva al mare mi mette già di buonumore.”
Sorrido posando la tazzina nell’acquaio.
Ti avevo raccontato della mia vacanza in Sicilia?
Non ricordo. Tu?

Bozza salvata il 30 ottobre alle ore 20:09

Non mi andava di fare quello che mi hai detto. E non l’ho fatto.
Per un po’ di giorni me ne sono dimenticata, poi ci ho pensato ma non ne avevo voglia.
L’ho trovato addirittura senza senso, una perdita di minuti, una stancante routine settimanale.
E poi, francamente, non ne avevo bisogno.
Ma domani ti rivedo, dopo un mese e mezzo! Mi sembra di ritornare a scuola dopo un periodo di convalescenza. Stavo rimettendo a posto i miei jeans nell’armadio e dalla tasca sinistra è caduto un foglio tutto spiegazzato e stinto. Ho strizzato gli occhi per capire cosa fosse e poi ho visto il tuo nome in alto. Fabrizio Fortunati. Sono scoppiata in una grassa risata. Purtroppo non sono riuscita a leggere la data ma dalla scoloritura delle lettere deve aver fatto innumerevoli lavaggi.
L’avrò dimenticata nelle tasche, magari mi sarò anche detta “domani la levo” per poi dimenticarmene di nuovo.
È stato allora che mi sono ricordata che dovevo scriverti e quindi, prima di addormentarmi, lo faccio.
Ho tolto il tutore da due settimane, cammino un po’ lenta, ma la fisioterapia mi aiuta.
Sono tornata a lavoro da cinque giorni, giusto il tempo di vedere la rivista con il servizio di Flavia sulle prime pagine. L’ho sfogliata stancamente, ho dovuto inumidire il mio polpastrello più e più volte.
Poi l’ho beccata. La foto con la luce poco contrastata. Veronica sembrava essersi appena svegliata e messa il vestito. Ho buttato la rivista capovolgendola sulla scrivania. Vedere il nuovo orologio Bulgari che non comprerò mai al polso di una strafiga in biancheria intima è addirittura meglio che vedere il nome di Flavia troneggiare in copertina con una foto con poco contrasto.
Non ho portato a casa il numero della rivista. Nella scaffalatura all’ingresso ci sono tutti i numeri della rivista dal primo al 1307. Il numero 1308 l’ho lasciato capovolto sulla scrivania. Seguirà il 1309.
Come se questo mese non fosse mai esistito. Per la rivista, per la mia tibia immobile, per la mia autonomia.
E per gli incontri con te, no?
Sì, ti ho scritto come mi avevi detto di fare, ma non è la stessa cosa, anche perché ho saltato una serie di volte in cui avrei dovuto farlo e invece non l’ho fatto.
Te ne parlerò domani. Adesso è meglio staccare il cervello.

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