vita e narrazione
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Il mio corpo non è mai solo il mio: la rappresentazione narrativa dei disturbi del corpo

di Chiara M. Coscia

Tutte le vite sono difficili a modo loro, ma c’è un livello di difficoltà ulteriore nelle vite di chi si trova impigliato in un disturbo alimentare che è arduo da chiarire a chi non è mai stato toccato, neanche da lontano, dalla questione. Un disturbo alimentare mina l’essere umano nella sua parte più animale e primaria: il nutrimento. Che si voglia parlare di dipendenza, malattia mentale, “una fase”, non si può prescindere dal fatto che stiamo parlando di cibo: qualcosa con cui tutti dobbiamo avere a che fare, ogni giorno, tutti i giorni, per tutta la durata dell’esistenza.
La fame è il nostro primo congegno di sopravvivenza. Romperne il meccanismo è come camminare sul cornicione. Di notte. Sbronzi.
Fame. Storia del mio corpo è il titolo del memoir di Roxane Gay che non ho letto l’anno scorso ma che ho finito ieri. È la storia di una violenza subita e di quella auto-perpetrata. Roxane viene condotta in un capanno nel bosco dal ragazzo “di buona famiglia” che frequentava a 12 anni e si ritrova vittima di uno stupro di gruppo. Da quel momento in poi comincia a mangiare in maniera ossessiva per nascondersi in un corpo obeso, quello che ancora oggi si porta addosso. Il tentativo tuttavia si rivela fallimentare. Un corpo obeso non sfugge agli sguardi, bensì è un costante argomento di conversazione, è l’unico aspetto visibile della persona, e ovunque, chiunque, si sente autorizzato a discuterlo, soppesarlo, giudicarlo, disprezzarlo.
Il corpo di Roxane diventa la pagina di partenza di una narrazione che passa da essere personale a politica nello sforzo di ricostruzione e ordine consentito dalla scrittura. Che sia il suo corpo è solo un caso. Le parentesi intorno a mio nel sottotitolo originale – discutibilmente tagliate nella traduzione in italiano – sono un avviso ma anche un suggerimento: dicono che quella storia, la sua, poteva essere, ed è, la storia di chiunque.
Quel corpo non è solo un corpo privato; è un campo di battaglia, una scena del crimine, il risultato di una vicenda complicata fatta di contesto, avvenimenti, persone, famiglia, immagini. La storia dello stupro non è neanche l’inizio di tutto il processo autolesivo. Roxane si domanda, nella prima parte del libro, come sia possibile che una ragazzina di dodici anni, proveniente da una famiglia amorevole e attenta, potesse avere un’autostima così immotivatamente bassa da spingerla ad assecondare ciecamente i desideri di colui che si trasformerà nel suo carnefice.
Dalla narrazione dello stupro, Roxane Gay si sposta su cosa significa vivere quotidianamente in un corpo obeso, un corpo unruly, “indisciplinato”, come sottolinea ripetutamente nel testo con una scelta lessicale precisissima. Non solo il suo corpo si ribella a ogni tentativo di controllo dall’interno, ma disobbedisce anche alle regole della società, e in questo il discorso femminista si sovrappone a quello più generale del peso: “Cosa dice della nostra cultura il fatto che la voglia di dimagrire sia considerata una caratteristica standard della femminilità?” scrive, rilanciando l’interrogativo al lettore. Una donna deve essere vista, ma non troppo. È richiesto un certo tipo di visibilità, di desiderabilità. Oltrepassare i limiti della richiesta ci sottopone al pubblico scrutinio.

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foto di ramez nassif

Il corpo, per quanto odiamo ammetterlo, non è mai solo nostro. Esistiamo fisicamente nei contesti sociali che frequentiamo, il corpo è strumento di comunicazione volontaria e involontaria, si muove, parla, a volte grida. Racconta, anche per sottrazione.
Chiunque si sente costantemente in diritto a esprimere opinioni sui corpi altrui – è una dinamica costante, fateci caso, non avviene solo con un corpo che grida come quello di Roxane, avviene sempre. La visibilità, tuttavia, non corrisponde alla leggibilità, e crea scompensi interpretativi non solo nella vita reale, ma anche nelle rappresentazioni del reale. C’è un problema, infatti, con le narrazioni dei disturbi alimentari, perché se da una parte si tratta di storie, per cui la focalizzazione dovrebbe riguardare il modo in cui sono raccontate, la voce, la creazione, il potenziale immersivo, dall’altro non si può prescindere da un problema di rappresentazione formale che hanno queste storie, un problema che scivola pericolosamente verso l’estetizzazione.
Prendiamo Fino all’osso (To the Bone), di Marti Noxon. Fino all’osso non mette in scena la solita dinamica di guarigione in genere messa in scena dai film sul tema. Il personaggio interpretato da Lily Collins non guarisce di fronte allo spettatore. Vediamo la battaglia, vediamo la possibilità di stare meglio, la lotta continua. In questo senso Fino all’osso fa un lavoro di narrazione sicuramente più onesto rispetto ad altri film sul tema. Tuttavia come si fa ad andare oltre la bellezza stupefacente di Lily Collins? Si può voler raccontare una storia di dolore e lotta con il corpo e usare un’attrice la cui bellezza risulta mozzafiato e del tutto lontana dalla realtà di sofferenza del corpo anoressico? Certo che si può, ma come si fa poi a far finta che non sia un problema? Che non ci siano istanze d’altro tipo dietro la scelta di questa precisa rappresentazione? Che narrata così, questa storia, rischia di diventare, per qualcuno, pericolosissima? Quello che mi domando è se possiamo prescindere dalla scelta estetica del cast in una storia in cui l’aspetto estetico risulta ancora più significativo del solito. Come scrive Roxane Gay, a questa società interessano le storie dei corpi emaciati, della disciplina di cui sono capaci. Ne incarnano l’istanza aspirazionale, il progetto ultimo della perfezione. Raramente le narrazioni dell’anoressia escono da una certa romanticizzazione del disturbo, che è quasi sempre rappresentato come socialmente accettabile, quasi auspicabile, e, soprattutto, “risolvibile”. Anche i titoli di certe storie invocano farfalle, piume, briciole, ossa, leggerezza, girando e rigirando intorno al concetto di peso. Difficilmente da questi titoli si intuiscono le storie reali che si innescano quando si smette di nutrire il corpo. Storie di decadimento, cedimento, consunzione, morte.
Ma le storie sono importanti, e il modo in cui vengono raccontate lo è ancora di più. Ridurre la narrazione al pattern “ragazza bianca e ricca all’improvviso, a causa di un commento come ‘Dovresti perdere un paio di chili’ si ammala – ragazza sta bene – sta male – sta meglio – sta peggio e poi guarisce” può funzionare in termini di struttura narrativa, ma può avere effetti disastrosi in termini di rappresentazione. Fame sovverte con onestà la narrazione stereotipata, senza incorporare il meccanismo della success story. Non c’è nessun lieto fine nella battaglia con il proprio corpo.

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foto di andrei lazarev

Tuttavia esiste una rappresentazione perfetta dell’anoressia, che non cede al desiderio di glamourizzare. Come succede spesso, per comprendere meglio qualcosa dobbiamo spostarlo in mondo completamente diverso da quello di provenienza.
Humans, è una serie TV britannica del 2015 co-prodotta da Channel 4 e AMC, una sci-fi che si costruisce in un mondo a tutti gli effetti non molto distante dal nostro, in un futuro che è in effetti un presente parallelo. Tutto è esattamente com’è nella realtà contemporanea, in Humans, tranne che per la presenza di umanoidi capaci di “servire” l’umanità, dei robot chiamati Synth. Come avviene anche in Westworld, il nucleo narrativo diventa la progressiva presa di coscienza e “umanizzazione” di questi robot, che procede di pari passo con la messa in scena di una costante dis-umanizzazione dell’essere umano “biologico”.
La serie cattura lo spettatore che si ritrova immerso nella focalizzazione sui Synth. Ogni tentativo di messa a distanza risulta complicato, per il fortissimo potenziale di immedesimazione, nonostante i robot, al contrario di quanto accade in Westworld, mantengano comunque degli elementi di estremo controllo nei movimenti, nel tono della voce, nell’estetica, che non ci fa mai dimenticare la loro sinteticità.
Questa pulizia, impeccabilità, apparente impassibilità, diventa il nucleo di manifestazione di un “disturbo” nella seconda stagione. La presenza dei Synth scatena negli umani giovani, bambini e adolescenti, un processo di emulazione che rappresenta perfettamente l’anoressia nervosa in un modo in cui moltissime “storie vere” non riescono, e cioè privando questa rappresentazione degli elementi apparentemente fondamentali, ma superficiali e portando alla luce un nucleo interno del problema molto più profondo e sociale. E così vediamo bambine camminare diritte e muoversi a scatti robotici, spolverare e rassettare stanze, rifiutare il cibo perché per un Synth “non è necessario”, vediamo la rappresentazione dell’ideale ascetico della perfezione, della pulizia e della totale mancanza di ogni tipo di bisogno, senza necessariamente passare in prima battuta per il peso corporeo, ma mantenendo vive due questioni: quella del corpo da “disciplinare” e quella del desiderio da sedare. La fame.

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foto di cintia-matteo

Cambiando la narrazione standardizzata dei disturbi alimentari, Humans ci mette di fronte a una responsabilità collettiva che in quanto tale diventa istanza politica. Di tutte le persone che sviluppano un disturbo alimentare a un certo punto della propria esistenza, solo la metà di chi si sottopone a terapia raggiunge la guarigione. Il tasso di ricaduta è altissimo, il livello di cronicizzazione è quasi totale, il tasso di mortalità è il più alto tra tutti i disturbi mentali.
C’è chiaramente un problema nella gestione della “cura”, e questo problema ha a che fare anche con il non portare mai il discorso terapeutico a un livello collettivo, mantenendosi incentrati sulla storia personale del paziente. La maggior parte delle narrazioni si muove in questo stesso terreno problematico scavato dai limiti della terapia: la standardizzazione schiacciata sulla storia individuale.
Ma si può mantenere una storia fuori dal proprio mondo? Se c’è una cosa che i libri ci insegnano è che quando si racconta qualcosa tutto entra a far parte della narrazione. Il paesaggio, l’ambientazione, il contesto, sono elementi fondamentali nella riuscita di una storia. Perché dovrebbe essere diverso per la narrazione di un disturbo? Perché dovrebbe esserlo per ogni processo ordinativo nel disordine delle nostre vite?
Nell’affermare che i disturbi alimentare siano in un problema “sociale” non è mio intento sostenere che i disturbi del corpo siano esclusivamente di induzione culturale, ma di certo le modalità di rappresentazione lo sono. Era il 1998 e Marya Hornbacher scriveva, in Sprecata, memoir sulla sua dolorosa storia di anoressia-bulimia:

“Non posso fare a meno di pensare che se fossi vissuta in una cultura dove la magrezza non è considerata come un particolare stato di grazia forse avrei cercato un altro mezzo per raggiungere la grazia.”

Ogni epoca ha la sua anoressia, e se Santa Caterina da Siena non mangiava e si fustigava per avvicinarsi a Dio, Ana Carolina Reston per essere un angelo di Victoria’s Secrets, nel mondo di Humans l’anoressia prende la forma di un robot umanoide dagli occhi verde smeraldo. Quello che emerge, sempre, è il controllo del bisogno, dell’idea della necessità, del corpo “indisciplinato” da contenere e domare.
Se Humans riesce, in una piccolissima storyline, a dare una rappresentazione viva e onesta dell’anoressia senza parlare di peso, un lavoro magistrale che fornisce una sorta di manuale di narrazione del disturbo – viene fatto in Sharp Objects (di cui abbiamo già parlato, per altre ragioni). La serie TV HBO riporta la rappresentazione dell’autolesionismo di Camille, che nel romanzo di Gillian Flynn viene affidata alla prima persona narrante, in una modalità per nulla glamourizzante. Attraverso i flashback, le inquadrature cupe e allucinatorie ma mai indugianti sul corpo, la serie narra con puntualità e precisione il disturbo di Camille, mostrando la realtà orribile di un corpo maciullato, senza l’esposizione voyeuristica o eroticizzata che in genere viene riservata alla rappresentazione del corpo femminile.
Sempre in Sprecata, Marya Hornbacher a un certo punto scrive:

“Tirare fuori la testa dal cesso è stato l’atto di ribellione politica più potente che io abbia mai fatto.”

Il corpo di Marya, quello di Roxane, tutti i corpi di tutte le persone che a un certo punto della loro esistenza si sono ritrovate impigliate in un disturbo, tutti questi corpi non sono solo portatori di un significato e di una storia individuali, e metterne in discussione le modalità di rappresentazione diventa non solo necessario, ma doveroso. Se il corpo sottostà da principio, dalla nascita, ai meccanismi (auto)-disciplinanti della cultura in cui vive immerso, quello stesso corpo può diventare un manifesto di auto-affermazione, un grido di protesta, un accenno a una speranza di liberazione che dalla pelle di uno parla di e a tutti.
Il corpo è il primo e più potente strumento politico che abbiamo. È bene tenerlo a mente.

 

 

foto di copertina di jason schjerven

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