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Della stessa sostanza

A seguito della nostra call abbiamo ricevuto 106 racconti. Letti e selezionati dalla classe di Apnea ’20/’21, ne sono infine stati scelti 13 per la pubblicazione.


Questo è l’ottavo, lo ha scritto Luca Franzoni e ha richiesto un primo intervento di editing per emanciparlo da un eccesso di evocazione che conduceva verso troppe e sfocate direzioni. Bisognava lavorare anche al ritmo dei dialoghi e dello sviluppo della storia. Lo ha fatto la corsista di Apnea Monica Ludonia, con correzione a cura della redazione. Un secondo intervento di tensione e montaggio è stato fatto da Francesca de Lena soprattutto sull’incipit e sul finale.


Ogni mattina Luce e il signor Forco si incontrano sulla spiaggia e osservano ciò che viene dal mare: agli occhi bambini di Luce le meduse spiaggiate e morenti si trasformano nel simbolo delle debolezze adulte. Grazie a un sottile gioco di capovolgimenti e rimandi, realtà e apparenza, bene e male, vittime e carnefici si rivelano fatti della stessa sostanza, in un crescendo di tensione emotiva in cui il male striscia, pronto a scattare sulla preda.


di Luca Franzoni


Corre mantenendo un contegno, non come certi suoi coetanei che lasciano sballottare le braccia, spalancano la bocca e gli occhi, quasi che la corsa fosse un’esperienza talmente forte da far perdere la testa. Lei corre con i gomiti piegati e aderenti al corpo, molle sulle ginocchia e più rigida sui piedi. Tiene la bocca chiusa in una fessura, respira dalle narici dilatate, gli occhi ben aperti concentrati sulla linea blu lontana. Solleva sabbia dai talloni. La spiaggia a quell’ora è quasi deserta.

Luce inizia a contare: uno, due, tre. Il mare è calmo, ma non tranquillo. Sembra un po’ la mamma. Il mare non fuma cento sigarette al giorno, non strabuzza gli occhi e non si sloga la mascella dal nervoso, quando non ha niente da dire, non si mette a ridere con il suono di una vecchia porta e non le artiglia il braccio per stringerla a sé con la forza di un orso. Ma insomma, gliela ricorda. Quattro, cinque, sei. Eccole, arrivano. Ogni mattina dall’inizio dell’estate. Non ne hanno mancata una. E allora perché non riesce ad abituarsi? Perché continua ad averne paura? Sette, otto, nove. Dieci.

La faccia da mostro (faccia?), i piccoli tentacoli, il corpo trasparente striato di viola. È morta? Fino a poco fa era viva e nuotava, adesso è spiaggiata. Il sole si sta alzando, così il mostro si scioglierà, pensa Luce. Tra qualche ora si vedrà solo la calotta nella sabbia. Più passa il tempo più sembra gelatina. Fino ad assomigliare a quelle cose.

«Ti odio», dice alla medusa. A tutte le meduse. «Vi odio, schifose».

«Perché le odi?», chiede il signor Forco, seduto sulla battigia con i pantaloni arrotolati al polpaccio e il cappello in mano. Glielo chiede sempre. Questa volta Luce risponde.

«Sono cattive».

«E chi ti dice che sono cattive?», ribatte il signor Forco, lisciando la tesa del cappello.

Lei vorrebbe dirgli che le meduse sono piene di male, lo sente pulsare dentro. Arrivano con le onde e, quando si sciolgono, il male passa dentro alla sabbia. Nessuno può farci niente.

«Me l’hanno detto in sogno», dice, indicando il mare che sta trascinando altre calotte mollicce. Il signor Forco ride con la gola, battendosi il cappello sulla coscia.

«Sai, secondo me invece vogliono solo essere tue amiche…». Tocca la medusa, spingendo un dito nella gelatina grigiastra. Poi, con un sorriso allunga il dito verso Luce, ammiccando.

Lei fa un passo indietro. Quando sua madre le ha mostrato le cose sul computer, le sono sembrate della stessa sostanza delle meduse sciolte. Non vuole che gliele mettano dentro alle tette, sono piene di male. Non vuole odiare il suo corpo. Ma la mamma era così contenta, non lo è quasi mai. Voleva spiegarle, voleva che capisse come funziona. Educarla.

«Ti fanno un taglio piccolo e te le infilano dentro. Anche tu sei una donna, Luce. Sono cose normali. Una donna ha il diritto di sentirsi bella».

«Tu sei già bella, mamma».

La mamma l’ha baciata. «Manca ancora poco», ha detto. Che voleva dire: mancano ancora tanti soldi.

Luce si riavvicina e dà un calcio alla medusa. Forco scuote la testa, e rivolto al mare fa un bel sospiro. Si è trasferito ad Ariano da poco, ogni mattina viene a sedersi davanti al mare. «L’aria salata fa bene ai polmoni! Chi lo avrebbe detto?», dice ridacchiando.

La prima volta che si sono salutati, che lui l’ha salutata, Luce ha pensato che volesse diventare amico di sua madre. Gli amici di mamma sono quelli che le danno i soldi. Ma al signor Forco piaceva solo stare seduto lì, a guardare le meduse con lei. Il vento le scompiglia i ricci rossi. Si volta per controllare che Sonia non la cerchi già. È ancora seduta con Nyra a bere il caffè e a fumare e a parlare, su al Jest. Infastidita, con la mano si toglie i capelli dagli occhi.

Il signor Forco pulisce sulla sabbia il dito sporco di gelatina trasparente. Ora ha un dito impanato come un bastoncino di pesce. Luce scoppia a ridere, è buffo il signor Forco. Forse è un amico. A un amico si può chiedere aiuto.


Sonia accende un’altra sigaretta, sbuffa e si tocca la mascella, che le pulsa di un dolore acuto e lungo fino all’orecchio. Dopo aver perso la voce a chiamare Luce contro il mare, avanti e indietro sfondandosi i polpacci con Nyra e Irina, si è piazzata su una sedia di plastica al Just Est e non si è più mossa. Irina è andata a prenderle le sigarette che erano già finite.

I carabinieri le chiedono tutta la storia e lei tutta la storia gliel’ha detta.

Com’è possibile che nessuno abbia visto niente? I ritardati che si svegliano alle sei per raccogliere conchiglie, quelli che corrono a petto nudo, nessuno?

È sparita nel nulla la sua Luce? Se l’è mangiata il mare?

Sì, sono scesa qui al Jest (così lo chiamano quelle che ci lavorano) come al solito, alle sei. Sei, sei e dieci. La bambina fa un po’ fatica a svegliarsi, poverina. Sì, vivo sola.

Il papà di Luce è andato. Puff. No, non scappato, non sparito, se n’è andato e basta, come succede, diosanto. Scendo qui al Jest e mi porto Luce, che poi passa Irina a prenderla. No che non è la domestica, le pare che ho la domestica? È un’amica, Irina, mi fa da babysitter, la tiene fino alle due. Potrei anche lasciarla a casa, ma non mi fido e poi Irina lo fa volentieri e a Luce piace andare al mare presto, si ferma lì a guardare chissà cosa, venti minuti e poi torna su, sempre. Sì, ha preso a far così e io la lascio fare. Ma stamattina non è tornata. Stamattina sono corsa da lei e c’erano solo le meduse.

La bambina ha otto, quasi nove anni. I due carabinieri iniziano a battere la spiaggia, chiamano per una motovedetta. Intanto i bagnini si staccano dalla battigia con le barche rosse, in piedi guardano giù, nell’acqua limpida del mattino. Sonia è sempre attaccata alla sedia, ma le scappa un grido: magari è tornata a casa! L’appuntato più giovane si fa dare l’indirizzo e va, a piedi, di corsa. La casa è vicina, trecento metri. Il carabiniere, sarà sui ventitré, torna affannato al Jest, si asciuga il sudore con un foulard colorato che deve avergli dato la ragazza o la moglie, tossisce e fa no con la testa. Sonia accende una nuova sigaretta con il mozzicone dell’ultima. Arrivano altri carabinieri, chiudono la spiaggia e si mettono a batterla di nuovo, stavolta in sei. Arriva anche la motovedetta, la vedono venire da Rimini. Sonia pensa al corpo di Luce che galleggia a faccia in giù. Si dà un colpo all’orecchio per calmare il dolore.

Le ricerche si concentrano sul mare. Al largo non ha molto senso, ma la motovedetta là può stare, più che altro a guardare verso terra, sai mai che spuntino dei ricci rossi. I bagnini, in tre, vanno in circolo, anzi a spirale, meticolosi, senza staccare gli occhi dal fondo, con le loro viste dieci decimi, i corpi abbronzati tesi e concentrati, come una danza. Sanno che non serve a molto, perché se una bambina annega il mare la ridà subito, non la nasconde là sotto. Per tutto il mattino loro cercano. Intanto i carabinieri iniziano a interrogare chi stava in spiaggia, almeno quelli che sono rimasti. Nessuno ha visto niente. Nessuno ha visto una bambina dai capelli rossi e gli occhi verdi, con un vestito azzurro e le ciabattine.


«Quanto manca?», chiede di nuovo Luce, eccitata. Cammina davanti al signor Forco e si volta di continuo per spronarlo.

«Poco, poco…», ansima lui, con il sorriso acquoso.

«Là è Cattolica», dichiara la bambina, indicando il porto oltre il canale a nord. Si ferma, pensierosa, chinandosi a raccogliere una conchiglia che si affretta a ripulire per poi soffiarci sopra e buttarla in acqua. «Ci siamo allontanati molto. Mamma mi starà cercando…».

«Ci siamo quasi, tesoro», risponde il signor Forco, «pensa come sarà felice quando tornerai con la tua sorpresa…».

La bambina si rialza e saltella. Quella parola, tesoro, a volte la usano gli amici di mamma. Ora che il signor Forco è suo amico, vuole sapere una cosa.

«Come fanno a piacerti…» e indica genericamente il mare a destra, con una smorfia esagerata «le meduse?».

«Piacermi? Io le amo profondamente», dice con un tono svenevole, strappandole una risatina. «Sono le creature più vecchie del mondo, lo sai? Hanno milioni di anni, non sono mai cambiate. Quando i dinosauri non erano ancora nati, loro erano così come le vedi oggi. Sono la memoria del mondo, non credi?».

Luce ci pensa su. «È una memoria buona o cattiva?».

«Be’», sorride il signor Forco, «la memoria del mondo non ha le nostre regole, non possiamo giudicarla».

«Anche se ha i tentacoli, è viscida e schifosa?».

«Mm…». Forco si toglie la giacca e se la ripiega con cura sul braccio. A lei piace come porta il cappello, appoggiato quasi per caso. «Allora anche le sorprese per tua madre sono schifose?».

«Oh sì!». Luce rabbrividisce. «E lei vuole mettersele nelle tette… Io non lo farò mai».

«Tu non ne hai bisogno».

Forco si toglie il cappello per farsi aria. Il sudore gli scende dalle orecchie sul collo, la camicia è chiazzata sotto le ascelle, sul petto, sulla schiena. A Luce non sembra che faccia così caldo. Non vede l’ora di portare una scatola piena di quelle cose schifose alla mamma. Il signor Forco giura di averne il frigorifero pieno. Le immagina come scatole di bomboloni alla crema, ma freddi gelati.


L’ispettore Quartiere arriva poco dopo le quattordici, con le mani in tasca.

Sonia Mari è ancora lì, sulla sedia di plastica. Quartiere fa un cenno alle donne e tira dritto, verso il mare. Cammina fino alla battigia, deserta in modo irreale. Il set di un film. Si avvicinano due carabinieri. L’ispettore guarda la linea dell’orizzonte.

«Che cazzo fanno?», dice, indicando i bagnini sulle barche rosse, che dragano il mare con i lunghi remi. «Fateli rientrare, dai», ordina Quartiere.

Alla madre fa poche domande.

«Signora, lei ha dei nemici?».

 «No… che nemici…».

«Luce è una bambina sveglia?».

 «Sì… perché?».

«Meglio svegli che lenti. Ha debiti, signora Mari?».

 «Io? Poca roba…».

«Bene. E il padre di Luce? Dov’è?».

 «Non lo so. Non è più…».

«Non fa più parte del quadro, eh? Non se lo vede a tornare a prendersela?».

Sonia scoppia a ridere, sembra una porta che cigola. Si copre subito la bocca.

«Allora… la bambina è scesa al mare da sola…».

«Come ogni mattina!», si difende Sonia.

«Certo», mormora l’ispettore, consultando il taccuino che gli ha passato il giovane appuntato, «verso le sei e un quarto». Solleva gli occhi sulla donna, fissandola. «Ogni mattina, alla stessa ora… Sembra un appuntamento, no?».

Sonia accende un’altra sigaretta. «Andava a guardare le meduse».

Comincia a singhiozzare.

«Basta così, signora. La lascio stare».

Quartiere sospira, si volta a guardare verso nord. Il giorno è così limpido che si vede la ruota di Rimini. Lì ha quasi finito. Si avvicina a Irina e Nyra. Su Sonia Mari circolano delle voci, ad Ariano. Dà un’ultima occhiata al taccuino. L’appuntato ha sottolineato poche parole: visite serali, amici. Clienti?

«Gli amici di Sonia…», chiede alle ragazze, «ne conoscete qualcuno?».

Loro scuotono la testa, Irina non lo guarda in faccia.

«Di dove sono?», insiste lui, «Di Ariano? O vengono da Riccione, Rimini, Cattolica?».

«Non sappiamo di cosa sta parlando», dice Nyra, gli occhi scuri su di lui. Poi si alza e va da Sonia. Irina resta seduta a scuotere la testa. Si schiarisce la voce e, senza alzare lo sguardo, chiede: «È morta, vero?».

L’ispettore torna sulla battigia, le mani in tasca. Ora il mare è vuoto, tranquillo. Se uno dei clienti, magari, avesse trovato la bambina particolarmente graziosa, pensa. Più graziosa della madre, sfatta dalla vita poco generosa. Se si fosse invaghito di quei ricci rossi, degli occhi verdi e della pelle chiara. Se avesse scoperto, o avesse sempre avuto, una certa inclinazione. La routine, come quella di Luce sulla spiaggia, aiuta il predatore. Ci vuole poco a farla allontanare con un pretesto. Un regalo, una promessa. Una storia.


Il frigorifero è davvero pieno di scatole. Ma dentro non ci sono le cose. La casa del signor Forco sembra una grotta, vicino al canale. È fredda e umida, sotto la finestra c’è un acquario grande come una vasca da bagno. La luce del frigorifero è azzurrina e il suo ronzio mette sonno. La tavola è apparecchiata per due. Piatti, forchette, coltelli.

Si mettono a guardare le calotte di meduse che non si sono sciolte. Zeppe del loro male antico che viene dal mare. Il signor Forco sorride soddisfatto. Luce non sa cosa dire. Dovrebbe correre fuori e continuare a correre fino a casa. Ma non riesce a pensare ad altro che a quei mostri dentro al corpo di sua madre.

Il signor Forco ha la faccia lucida. Prende una scatola e la posa sul tavolo. Luce si aggrappa alla tovaglia. Ti fanno un taglio piccolo e te le infilano dentro, aveva detto mamma. Una donna ha il diritto di sentirsi bella. Il signor Forco prende tra le mani una calotta di medusa e fa per porgergliela. Lei si scosta, camminando all’indietro. Lui è ingobbito, con le mani a coppa davanti a sé, gli occhi bianchi, con i pantaloni ancora arrotolati in cui le gambe ondeggiano molli. Più che sudare sembra che si stia sciogliendo, l’acqua gli scivola giù dappertutto. La testa spelacchiata è quasi pelata, con pochi ciuffi rossastri schiacciati sulle tempie. Come vorrebbe che avesse tenuto il cappello.

«Su, prendila, guarda che non morde», dice, avvicinandosi sempre di più.

Luce strilla: «No!».

Il signor Forco oscilla, ma non si ferma. Lei china la testa e comincia a piangere piano. È uno squittio all’inizio, poi cresce. Vengono i singhiozzi, che scuotono le spalle strette, e le lacrime corrono sulle guance accaldate. Forco si blocca e posa il cadavere della medusa sul tavolo, al centro di un piatto.

«No, no… era solo un gioco…», dice, la voce sciaguattante di un annegato.

Mentre si volta a consolare la bambina, la lama lo colpisce alla coscia. Si ritrova in ginocchio, e l’occhio sembra uscirgli dall’orbita per il dolore. Poi vede il riverbero di una luce fredda, e la piccola mano che scatta ancora verso l’alto.


Ad Ariano a Mare (sul confine con Cattolica), quel giorno d’agosto furono in molti a vedere una bambina con i capelli rossi, il vestito azzurro e le ciabattine, che camminava con la lingua tra i denti stringendo due buste, una per mano. Aveva il mento impiastricciato di sangue, negli occhi fissi in avanti c’era qualcosa di inquietante, e nessuno si diede la pena di fermarla. Le buste di plastica che trascinava sembravano pesanti. Fece diversi viaggi verso la pineta che costeggia il canale. A metà pomeriggio, quando la videro tirarsi appresso una vanga, qualcuno si decise a chiamare i carabinieri.

Fu l’ispettore Quartiere il primo ad arrivare. Sotto i pini marittimi, la bambina, sporca di terra e di sangue, stava scavando una fossa nella quale aveva già svuotato parte delle buste. C’era una gran puzza di cose marce abbandonate dal mare.


Luca Franzoni è nato nel 1979. Ha pubblicato due romanzi. Un terzo l’ha autopubblicato online. Ha da poco finito il quarto. Suoi racconti sono stati pubblicati da Gialli Mondadori, Effe, Readerforblind, Carie, Polidoro Editore. Lavora in un cinema di Milano. È correttore, editor e traduttore freelance.


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