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Postilla n.11

Hai presente la posta del cuore?
Postilla è la posta del cuore per autori inediti. Tratterà di scrittura piuttosto che d’amore, ma per il resto la formula è la stessa: scrivi a Francesca de Lena e lei ti risponderà.

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Cara Sara,

perdonami per averci messo tanto.

Mi chiedi degli elenchi e dei periodi lunghi, temi che rallentino il ritmo. In realtà io qui non trovo né periodi lunghi né chissà che elenchi, quindi direi che questo pericolo è scongiurato. Quello che vedo, però, è un’immagine attorcigliata su sé stessa, e quindi statica. Ed è questo il problema che rallenta il ritmo, ed è un problema anche perché dimostra il contrario di ciò che racconta: tu vuoi una dinamica elettrica, urlata, nervosa, al limite del crollo. Ma ci insisti troppo su, senza immaginarne cause e conseguenze, senza uno sguardo laterale che la inquadri da un punto di vista inaspettato, e quindi la sprechi.

Il testo potrebbe dividersi in due metà: le descrizioni relative alla madre, le descrizioni relative al figlio (e già questo, la dicotomia, tende a rinchiuderti: le aperture le danno le terne di elementi). Madre:

Non era mai sola/Mai un cazzo di momento in cui potesse sedersi e lasciare andare la testa/C’erano urla che le aprivano crepe nel cervello/lei tremendamente lenta/Parlare e non sentire quello che le rispondevano/Condannata a sorridere senza riuscire a seguire un filo, senza essere in grado di formulare una frase di senso/così inutile, così trasparente, così fastidiosa a livello di decibel/sulla lingua nessuna parola giusta o connessione logica/Ci aveva provato, a capirlo, mille e mille volte/Alcune sere aveva urlato anche lei, era diventata pazza/avrebbe voluto ingoiarsi la lingua, e si era schiacciata forte la testa tra i palmi.

Figlio:

un essere attaccato al polpaccio/quegli artigli aggrappati ai jeans, la chiazza di moccio e lacrime a metà gamba/un ululato/l’urlo metteva in fuga/quegli occhi strizzati/i pianti non smettevano mai, quasi mai.

La pagina è fatta sostanzialmente di un’unica informazione: c’è un bambino che piange, e una madre esausta. Le possibilità di apertura, di dinamismo dell’immagine, te le danno: lo slalom sul marciapiede oppure un evento con terzi (festa, riunione, appuntamento con il responsabile) oppure l’uscita di casa sbattendo la porta. Prendi una di queste strade e approfondiscila, tutte insieme si indeboliscono, si fanno ripetitive (nella selezione, prediligere le immagini meno note: meglio gli artigli aggrappati ai jeans, la chiazza di moccio e lacrime a metà gamba piuttosto che le urla che le aprivano crepe nel cervello), e soprattutto astratte, generiche, sempreverdi. Se il problema è generico, lo diventa anche la soluzione (allattamento), per cui finiremo per leggere di un generico esaurimento nervoso della madre che allatta un bambino piangente, come se fosse un tropo riconoscibile da sé (e allora perché raccontarlo?) invece che la specifica vicenda di questa specifica madre del tuo racconto, con il suo specifico bambino. Scegli cosa raccontare di loro, del loro intimo conflitto (si vergognava di lui) e non rifugiarti nelle immagini rappresentative di tutte le madri, perché quelle in realtà non ne rappresentano nessuna.

Ciao, buona scrittura 😊

Francesca

Postilla n.12

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Cara Yolima,

è un po’ inquietante come questo testo si sposi con l’argomento di cui abbiamo appena discusso più su. Nell’infinita ampiezza e diversità delle storie, siamo di fronte a bambini non visti, abusati, lasciati soli. Un materiale molto difficile da trattare, da un punto di vista puramente narrativo. Quel che tu mi mandi non è ancora una scrittura, in questo senso. Assomiglia più a un appunto, a una cronaca. Un fatto è avvenuto, ci sei entrata in contatto, ti ha (giustamente) colpita. Hai voluto metterlo su carta. Fin qui siamo nel campo della vita reale. Anche la trasposizione su carta, finché resta di questa sostanza, non è che vita reale. E la vita reale, per quanto splendida o terribile, avventurosa o sorprendente, non ha niente a che fare con la pagina: non è racconto. Perché questo testo diventi racconto occorre che tu ne prenda le distanze o almeno riesca a vederlo come materia manipolabile. Non bisogna per forza farne fiction ma per forza bisogna trovare una struttura, una forma, uno sguardo, una lingua che lo modelli e lo reinterpreti. Non più Paolo e sua madre (cronaca) ma ciò che rappresentano, ciò che ne fa metafora. E ciò che ne fa metafora puoi scovarlo solo dentro di te, facendo allo stesso tempo un passo indietro dal fatto che scotta, e uno in profondità per andare a guardarlo senza paura e mettendoti in gioco, smettendo le vesti della testimone.

Ciao, buona scrittura 😊

Francesca de Lena

Postilla n.13

Hai presente la posta del cuore?
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Cara Laura,

la prima cosa che vorrei suggerirti a proposito della tua mail, e suggerendola a te la suggerisco a chi ci legge, è che la fretta non fa quasi mai bene alla scrittura. A meno di avere un mestiere tale tra le mani, costruito in anni di pubblicazioni e progetti andati a buon fine, occorre dare il tempo alle storie di venir fuori per come devono, senza inseguire date, accadimenti e anniversari esterni: il risultato molto probabilmente non sarà riuscire ad “approfittare” di quelle occasioni (es: scrivo una storia ambientata durante le Olimpiadi in occasione delle imminenti Olimpiadi) ma creare un testo tesistico, senza spirito e cuore, furbetto, uguale a mille altri.

Veniamo dunque al testo: quel che vedo da risolvere con più urgenza è una confusione di focalizzazioni. Esterna? Interna? Vuoi che ci mettiamo ad altezza della bambina o della voce narrante? Non è (solo) un problema di prima e terza persona verbale e non è (solo) un problema di soggettività che si allontana come un’onniscienza e si avvicina come una coscienza a mo’ di fisarmonica: è proprio un problema di tono, di misura, di distanza. Dove vuoi che siano i lettori mentre guardano la storia? Qual è il loro centro? Di quali sorti debbono interessarsi, quale voce (pensiero, azione, sentimento) devono seguire? Di chi/cosa stai loro parlando, e perché?

Sono domande che devi porti non solo per sciogliere i bisticci del tipo miei/suoi, me/te, io/lei che trasformano la scena in una sorta di istruzioni per l’uso, ma perché altrimenti finisci per voler mettere dentro al testo di tutto: le informazioni storiche, i rimandi mitologici, le relazioni immaginarie. L’impressione è che tu voglia dire ai lettori quel che hai studiato e insieme convincerli a seguire una storia inventata, conservare l’autorevolezza del dato e mettere in campo la seduzione della suspense: ma non si può far tutto, o almeno non tutto in poche righe.

Quel che è più importante è non ingarbugliare invece di accogliere, perché non è la complicazione che rende un romanzo interessante, anzi. I non detti, le allusioni, i riferimenti occulti a lungo andare stancano, perché tengono il lettore alla finestra, ad assistere a un gioco tra te e te da cui sono esclusi. Invece di far loro scervellare dietro la traduzione di troppe astrattezze (es: Se fosse chiunque altro, e in qualunque altra circostanza, la sua intera esistenza sarebbe maledetta per quell’oltraggio. Ma non oggi e non qui. La storia vuole usurpare il mio nome, lei è il tramite attraverso cui io lo impedirò) prova a entrare nell’azione con maggiore trasparenza, muovi i personaggi con armonia. Calati completamente negli occhi della voce narrante che osserva la bambina (ma partecipando con lei, senza intessere indovinelli e sciorinare informazioni) o viceversa calati completamente nelle gambe della bambina che corre.

Fai la tua scelta, così dai a chi legge la possibilità di fare la sua. Ha voglia di seguirti oppure no? Intrappolarlo nell’indecisione potrà durare qualche pagina ma non funzionerà a lungo. Meglio, invece, fare in modo che si affidi a una lettura di cui si sente padrone. E per far sì che si affidi occorre che creda a quel che gli stai raccontando, senza trucchi.

Ciao, buona scrittura 😊

Francesca de Lena

Postilla n.14

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Cara Claudia,

mi occupo di narrativa e quasi mai di saggistica, per cui leggendo la tua mail ho pensato di non poter dedicare una puntata di Postilla a ciò che hai scritto, non ne ho le competenze. Poi però sono tornata sui miei passi, perché il testo che mi hai mandato è in fondo un’introduzione e non occorre che io sia specializzata nell’oggetto discusso perché possa dirti quel che penso. Quel che penso l’ho letto qualche giorno fa su La lettura in un’intervista allo scrittore Hisham Matar, che a una domanda sull’importanza dell’ambivalenza nella scrittura risponde così:

Ho pensato a lungo che si potesse scrivere solo nel momento in cui si è sicuri di qualcosa. Invece è il contrario: si scrive quando sono maturate la tua passione e le tue domande su qualcosa. E, paradossalmente, quando non si hanno le parole per descriverla. Scrivere è trovare le parole.

La tua introduzione comincia così:

La poesia va vissuta, e in un mondo nel quale limitano la libertà di espressione perseguendo l’adeguamento ad un modello prestabilito di persona, questo non è possibile. Così è stato sempre e così sempre sarà, fin tanto che non cambieranno i presupposti.

e lungo tutto il testo si respira sempre aria di inconfutabilità, perché le frasi sono sentenziose e gli assunti dogmatici. Mancano le domande, l’esplorazione sincera, l’indagine. È come se tu avessi già tutte le risposte certe, e allora cosa resta da scrivere? Qualsiasi tipo di testo dovrebbe essere un dialogo con sé stessi e con il lettore. Ma, mettiti nei miei panni (nei panni del lettore), come posso dialogare se non c’è alcuno spazio per il dubbio e la scoperta? Prova a rendere un po’ più traballanti le tue certezze, diventeranno più interessanti, e quindi convincerai meglio.

Ciao, buona scrittura 😊

Francesca de Lena

Postilla n.1

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Cara Silvana,

molto bella una grotta dove si scappa per non morire e però è un continuo grattarsi. In una frase rendi luogo, contesto e sensazione di disagio: c’è qualcuno di vivo che combatte con le pulci. Occorre tu renda vivo anche tutto il resto e non ti accontenti di nominare (e alle volte anche spiegare) sentimenti troppo astratti (Nostalgia.
Si chiama così il dolore che proviamo desiderando il ritorno di qualcuno o qualcosa) 
e prevedibili (odiare, odiare, detestare la guerra).

E che ci dici di Maddalena, che lo faceva sognare ancora? Abbiamo un’informazione di servizio (figlia dei vicini) e qualche connotazione frettolosa: gambe, valzer, annuncio arrivo americani. E abbiamo una classica promessa da romanzo: “da grande la sposerò”. Se però Maddalena è il nostro oggetto del desiderio ha bisogno di restare al centro dell’attenzione del lettore per più tempo invece di venire scalzata in poche righe da: i vecchi col berretto, un amico paffutello, delle comari scontrose, due alpini mutilati, la madre della voce narrante e Clara, una signora triste a cui piace la bella vita (gestisci bene le contraddizioni, che pur ci devono essere, in un personaggio). Tu vuoi arrivare a Clara, ok, allora scegli: Maddalena o Clara? Non schiacciarle nella stessa scena, a ognuna il suo momento. E in ogni caso: non rinunciare alle relazioni intime del personaggio (Maddalena da sposare, Clara da scoprire) in favore dell’affresco (libertà, cioccolata, prostituzione): dacci i personaggi, sono loro il nostro spazio-tempo, è di loro che vogliamo vedere tutto, il resto lo deduciamo da soli.

Ciao, buona scrittura 😊

Francesca

Ma Borges non è un orologiaio del racconto

di Giuseppe Cofano

[dal nostro corso di critica letteraria a cura di Matteo Marchesini, un esercizio di critica della critica: dove si critica Giovanni Raboni che a sua volta aveva criticato Jorge Luis Borges]


Jorge Luis Borges è stato tra i volti letterari ante litteram del postmoderno. I suoi giochi di labirinti, finzioni, specchi, di infinite ripetizioni e di esplorazioni libresche, al centro dei più celebri racconti pubblicati già negli anni quaranta, sono diventati, qualche decennio dopo, il simbolo per eccellenza di una teoria filosofica e di un gusto letterario e artistico che ha inteso eliminare concetti ingombranti come la verità e la fattualità in nome della fantasiosa e libresca ode alla finzione e alla speculazione.

Questo, la sua natura di precursore e di ponte tra modernismo e postmodernismo, è uno dei motivi che hanno decretato lo straordinario successo dello scrittore di origini argentine e il fascino che le sue opere hanno esercitato presso autori di assoluta rilevanza (in Italia, per citarne qualcuno, due pesi massimi come Italo Calvino e Umberto Eco, il quale addirittura nel suo romanzo più famoso, Il nome della rosa, omaggia Borges rendendolo un personaggio chiave della storia e del simbolismo sotteso).

Tra questi ammiratori non c’è, però, il poeta e critico Giovanni Raboni, che in un intervento del 1986 per L’Europeo definisce Borges un «eccellente specialista e virtuoso», ridimensionandolo a interprete di un sottogenere del fantastico che mancherebbe della dote essenziale propria dei grandissimi scrittori, cioè di quella consistenza opaca e viscosa della scrittura che è lo stemma degli immortali. Raboni giudica i racconti di Borges un vuoto e astratto divertissement intellettuale, privo di quella indispensabile corteccia imbevuta e trasudante di linfa che è propria di ogni grande opera letteraria. Secondo Raboni Borges donerebbe ai suoi lettori l’ebbrezza dell’alta letteratura, dell’alta quota, alzandosi però «di pochi metri da terra». La sua produzione narrativa sarebbe, in sostanza, un surrogato di grande letteratura, un prodotto di lusso per esteti che desidererebbero raggiungere la vertigine dell’abisso senza sobbarcarsi la fatica della pagina.

Qualche considerazione. Al di là delle gerarchie di valutazione assolute, che sono sempre molto scivolose in campo letterario, fa intanto riflettere, con l’occhio di oggi, l’analogia tra la tesi sostenuta da Raboni e una categoria che è molto attuale, quella della “letteratura di nobile intrattenimento” (teorizzata dallo studioso Gianluigi Simonetti), cioè la nuova forma della narrativa midcult capace, con adeguati e furbi accorgimenti, di fornire l’ebbrezza della vertigine sublimante. Quello che oggi appare come un grande classico moderno, un autore di indiscutibile spessore, poteva apparire a Raboni, poeta che si richiamava a ben altre concezioni rispetto a quelle postmoderne, un impostore magnificato oltre i propri meriti. Fa riflettere anche l’accusa, velata ma chiara, di costruzione del personaggio mediatico, del mito autoriale, quello dell’oracolare bibliomane fatalmente destinato alla cecità come tutta la famiglia: anche qui non si possono non scorgere i parallelismi con una tendenza dell’editoria che oggi ha raggiunto altra diffusione.

Ma Borges è stato molto più che un seriale orologiaio del racconto. Il senso di disperata e lucida ricerca intellettuale, il motivo dell’inseguimento implacabile alle pagine disperse di un raro volume, per esempio di un tomo dell’Enciclopedia Britannica, come quest esistenziale, ha influenzato autori disparati: un nome su tutti, celeberrimo, quello di Bolaño, a cui di sicuro il senso dell’amore, della paura e di tante altre umane passioni, altro rimprovero di Raboni a Borges, non manca. E la cifra stilistica dello scrittore argentino, la sua inconfondibile voce lucida e dottamente allusiva, resiste molto meglio di quanto Raboni pretenderebbe alla prova del riassunto, della riduzione alla pura storia.

La varietà con cui Borges nei suoi racconti padroneggia le sottili inversioni di prospettiva, i rovesciamenti dello sfondo delle vicende umane (del cielo e della terra), gli scarti narrativi, i richiami circolari e le infinite ripetizioni, passando dal mito di Omero al nazismo come abisso del male novecentesco, ha questo di caratteristico: che non si scorge il meccanismo dell’ingranaggio, quello che Raboni vorrebbe perfetto e visivamente nitido. E questo fa la differenza tra un grande scrittore e un eccellente specialista: il fatto che alla fine della lettura i suoi racconti lascino un senso di spaesamento, di turbamento che deriva dal non avere capito il principio che ne sta alla base.

Il sospetto, a dirla tutta, è che Raboni, nel prendersela con i racconti cesellati di Borges, stia in realtà prendendosela proprio con il postmoderno, con le astratte speculazioni (i giochi di specchi) in cui spariscono l’amore, la gelosia, la paura, la gamma di sentimenti umani che sarebbero per lui il nucleo fondante dell’arte. E che quindi stia sostanzialmente confessando una propria personale idiosincrasia. Legittima, rumorosa, ma tutta contenuta nel gioco infinito (infinito alla Borges, e torniamo circolarmente a lui) della letteratura.


Giuseppe Cofano è ingegnere informatico appassionato di letteratura. Pubblica sul suo blog personale L’Incompetente articoli di critica, recensioni e interviste ad autori.

Specchio riflesso, signor Borges

di Carmen Verde

[dal nostro corso di critica letteraria a cura di Matteo Marchesini, un esercizio di critica della critica: dove si critica Giovanni Raboni che a sua volta aveva criticato Jorge Luis Borges]


È borgesiana la stroncatura che Giovanni Raboni fa di Jorge Luis Borges? Lecito domandarselo, dato che è Raboni stesso a chiederselo (facendoci tornare in mente, fra l’altro, che il primo a dire “Ne ho abbastanza di Borges” fu Borges stesso). La risposta è: no, lo spirito con cui Raboni smonta l’Omero argentino non è borgesiano. Non ne ha la postura di statua. E però, dato che com’è noto sempre i sentieri si biforcano, la risposta è anche: sì, la stroncatura di Raboni è borgesiana, e in un modo birichino.  

A Borges i detrattori non sono mancati mai: restando in casa sua, il porteño Roberto Arlt (“Scrittori che hanno una fama superiore ai propri meriti? Borges, certo, benché ancora non possegga una sua opera”); e, siccome leggenda vuole che segretamente i due si amassero (“unire Borges e Arlt è una delle utopie della letteratura argentina”, scrive Ricardo Piglia), come dimenticare allora Ernesto Sabato, il preferito di chi scrive nonché l’unico capace di mettere Borges in seria difficoltà sul suo stesso terreno del ‘sogno’ (se non anche su quello dei ‘ciechi’). In Europa, tra gli altri, Elias Canetti: “Borges non mi piace affatto. Non cozza con la pietra. La blandisce”, così scrive in uno dei suoi appunti.

Senza deprezzare i precedenti, ciò che affascina del frizzante elzeviro raboniano è tuttavia il modo con cui Raboni organizza e sferra l’attacco alla fortezza.

Conosce, Raboni, il potere di calamita delle metafore borgesiane e sa anche che, per togliere di mezzo Borges, non basta denunciare l’ossessiva presenza dei ‘labirinti’ nelle sue pagine: nel teatro di Skakespeare le immagini ricorrenti non diminuiscono l’emozione, anzi; e, in musica, i ‘motivi’ delle opere wagneriane non (sempre) stufano.

Conviene aspettare. E allora, evitando di andare a rompersi la testa, allinea sotto gli occhi del lettore i nomi di Kafka, Beckett e Céline. Il perfido, squisito attacco lo muove direttamente dall’interieur della biblioteca. E trattasi di attacco libresco terribile. Far rivaleggiare Borges con Kafka… In una quadreria, lo stesso effetto lo farebbe mettere un Guttuso accanto a un Goja.

È mai stato disperato Borges? mi sto domandando a questo punto della lettura del pezzo (e mi chiedo se me lo sono mai chiesto prima). La sua tristezza morbida e vanitosa conosce la confusione dei sentimenti, sa che ‘si cerca gemendo’? E che confidenza ha con l’eternità tutta terrena dell’amore, con la voluttà di essere un relitto? Mi è appena tornata in mente una sua frase che mai mi ha convinta fino in fondo: “Leggere è un’attività successiva a quella di scrivere: più rassegnata, più civile, più intellettuale.” Esattamente, Borges che intendevi dire con ‘rassegnata’?

Forza Raboni, non farti attendere. Spiegami perché Jorge Luis Borges mi sta antipatico e non lo sapevo. Dimmi perché il doppio borgesiano non ha (non ha avuto mai) il dono prezioso dell’ambiguità, e perché la labirinto-mania – che ai beati tempi tuoi non aveva anche l’equivalente in salsa emiliana di Franco Maria Ricci, il labirintuccio il cui biglietto d’ingresso è oggi assai salato – da sola non è titolo sufficiente per la letteratura.

E soltanto a questo punto Raboni, che ben conosce e coltiva il senso dello sviluppo della pagina, indica birichino ai miei occhi, uno dopo l’altro, gli orrendi “cartelli segnaletici: attenzione, labirinto; attenzione, sistema di specchi; attenzione, trasformazione del personaggio nel suo doppio, della veglia in sogno, e così via”. Ecco cos’era! Lo vedo adesso gli escrementi d’insetto, quel continuo ‘nominar le cose’ che stanca…

Con genialità tutta rabonesca, in finale d’elzeviro, Giovanni Raboni conficca così nella testa di noi lettori i medesimi cartelli segnaletici tanto amati da Borges. Potremo più leggere lo scrittore argentino senza pensare “attenzione, labirinto; attenzione, sistema di specchi; e così via”? No, non potremo.  E, soltanto a pensarci, in quei labirinti perfetti “segnalati come le curve e le cunette sull’autostrada”, tutti così imparentati con Il Labirinto Centrale Borgesiano, quasi quasi (bel colpo, Raboni) non ci va più di scrutare.   

Specchio riflesso, signor Borges.


Carmen Verde vive a Roma. Ha scritto Una minima infelicità, 2022, Neri Pozza.

Efecto boomerang. Come la critica di Raboni a Borges finì per ritorcersi contro

di Martina Ásero

[dal nostro corso di critica letteraria a cura di Matteo Marchesini, un esercizio di critica della critica: dove si critica Giovanni Raboni che a sua volta aveva criticato Jorge Luis Borges]


Un uomo che si dedica per anni alla traduzione di un’opera labirintica come La recherche proustiana non può che indurre chiunque si accosti al suo cospetto a una genuflessione o, in caso di dolori articolari, quantomeno a una levata – e non metaforica – di cappello. Tuttavia, anche Dante Alighieri, pur avendo composto uno dei massimi capolavori dell’umanità, non era esente da asprezze ideologiche e comportamentali che rendevano la sua compagnia assai poco piacevole in ambienti svariati; così Raboni, inzuppato il suo cornetto alla crema nel cappuccino, lascia scoccare una freccia avvelenata contro Jorge Louis Borges, sottostimando l’effetto boomerang di certi dardi ricurvi.

L’opera borgesiana viene ridotta a due esigui e singolari capolavori, i racconti di Finzioni e l’Aleph, e anch’essi appaiono sminuiti all’essenza di una macchinazione narrativa tanto lucida quanto semplice, al punto da poter essere memorizzata e riproposta nel bel mezzo di una cena fra amici a mo’ di barzelletta. Niente a che vedere con i lavori impareggiabili di Stevenson e Kafka, che per essere goduti vanno letti per intero, in quanto tutto è perfetto e l’asportazione di una sola virgola corromperebbe l’architettura del progetto sapiente. Un autore che replica sé stesso ha già detto tutto ciò che andava detto, e la sua stessa presenza risulta ridondante.

Questo potrebbe anche essere vero, per certi autori, ma per Borges, proprio per Borges,  è impossibile.

Il punto è che lo stesso Raboni non può fare a meno di utilizzare il linguaggio borgesiano per raggiungere lo scopo di denigrarne il fautore, e finisce per interpretare il ruolo dell’ateo che contempla il creato e silenzia l’Autore. Il suo pezzo comincia con un’affermazione di dichiarato sapore borgesiano, sia nel concetto (mi è capitato di pensare che possa avvenire che…) sia nella costruzione sintattica e persino nella scelta della punteggiatura, con le parentesi che sembrano aprire varchi proprio dove si pianificava di erigere un muro. Un viluppo di ipotesi, considerazioni e accostamenti aggettivali scelto per suscitare un rimpianto ammantato di malinconia, tutto squisitamente sudamericano. È lo stesso Raboni a cogliere la borgesianità del suo costrutto, forse anche con un discreto compiacimento per la non troppo velata ironia. Ma se il primo riferimento può anche essere opportuno, sul secondo la già labile impalcatura crolla. Personalmente, sono a volte tentato di supporre (e anche questa, in fondo, è un’idea borgesiana: Borges è contagioso, inutile negarlo…) che Borges, in realtà, non esista, che sia un personaggio inventato dall’inconscio collettivo dei letterati europei. Così il dubbio insinuante che la realtà sia vera si inerpica pure nelle interrogazioni del critico che, seppur cerchi di divincolarsi, con dei tardivi scherzi a parte, dalla colla che lui stesso ha emesso, se ne ritrova impastoiato.  Forse, ciò che sfugge a Raboni è l’imperscrutabilità celata dietro l’apparente libro facile, quella stessa trasparenza e non convenzionalità  che in un articolo del 1995 pubblicato sul Corriere della Sera gli faceva definire Pier Paolo Pasolini capace d’essere poeta in tutto, nella critica come nel giornalismo, nella filosofia come nel cinema, così in tutto, tranne che nella poesia. In Borges, che era filosofo in narrativa, romanziere in poesia e poeta nella saggistica, non rintraccia i confini, e anziché interrogarsi sulle possibilità di essere universale in forme inedite, riduce il suo lavoro a gelatina intorno al pollo in gelatina.

L’ipovedente pare essere lui, che accusa l’argentino di aver cosparso i propri testi di cartelli segnaletici per indicare la strada ai viandanti, quando lo stesso Proust da Raboni così – giustamente – amato usa tale tecnica, e in modo persino più sfacciato. Cos’è la metafora del fiore femmina e del seme al principio di Sodoma e Gomorra se non un gigantesco segnale stradale sulla direzione che prenderà il volume? E il farsettaio Jupien in postura impettita, con la civetteria di un’orchidea all’arrivo del calabrone, non è forse una mise en ebîme delle cinquecento e più pagine che verranno?

A conti fatti, se uno scrittore ha forgiato – riplasmando materiale già esistente, e per sua stessa ammissione in modo ovvio, in quanto tutto ciò che si crea oggi è un rimodellamento di quanto l’antico ha già provato – un’immagine, un topos, una suggestione o un neoarchetipo e gli ha dato la forza sufficiente a diventare dialogante, tale scrittore ha già compiuto molto del proprio destino. Non credo sia un caso che il romanziere Tanizaki Junichirō, che ha condiviso in buona parte con Borges la propria porzione di anni terreni, pur non avendolo probabilmente mai incontrato, abbia scritto nel 1933 Libro d’ombra e che poco prima fosse uscita in Italia una raccolta di poesie di Jorge Luis Borges dal titolo quasi sovrapponibile: Elogio dell’ombra. Entrambi pongono al centro questioni estetiche e letterarie. Cos’avevano in comune i due letterati? Quasi nulla, se non che María Kodama, a lungo segretaria, poi  dispensatrice di occhi alternativi per il quasi cieco scrittore, avesse un padre giapponese. Ma le loro opere dialogano, separate da un oceano e da strutture sintattiche radicalmente diverse, e creano una costellazione condivisa che è il frutto di un sentire donato, un’essenza e una perspicacia propria di quei letterati eredi di una parabola antica: il poeta – e lo erano entrambi – vede quello che gli altri non vedono e si sintonizza su frequenze non udibili da tutti gli esseri umani. Resta il fatto che queste visioni vengono propagate dagli spiriti gentili senza nulla in cambio, anzi, ne ricevono talvolta un ingeneroso rinfaccio, come è accaduto stavolta. Peccato per Raboni che se Borges avesse letto le sue parole (la grande letteratura vive in una dimensione opaca e faticosa cui essa stessa dà vita, dove piacere e dolore, oscurità e sapere s’intrecciano lentamente, centimetro dopo centimetro) si sarebbe concesso una risata saporita, rintracciando nella precisa descrizione del critico nulla più che la propria firma. E con il bastone fra le dita e lo sguardo già altrove, si sarebbe domandato chi fra i due fosse il cieco.


Martina Ásero gestisce un centro di formazione artistica in Sicilia e cura il canale YouTube dedicato ai libri Ima AndtheBooks. Insegna lettere alle scuole medie. Ha pubblicato narrativa per Caravaggio Editore, Centoautori e Nous. 

Prendila come una critica 3 – fragole e uova di Savinio

[dal nostro corso di critica letteraria a cura di Matteo Marchesini, esercizi di analisi del racconto Mia madre non mi capisce di Alberto Savinio]


Fragole in dicembre!

di Massimo Grecuccio

Ci sono buoni indizi per arrivare a credere che in Mia madre non mi capisce il narratore sia una prima persona camuffata da terza. Buoni indizi non significa certezza. Osserviamo però che Nivasio, nome, è l’anagramma di Savinio, il cognome dello scrittore, che Maria è la moglie di Nivasio, e che Angelica e Ruggero, i figli del racconto, si chiamano come i figli dello scrittore Savinio, sposato con Maria. Nel racconto il cognome della famiglia è Dolcemare, ma questo indizio è debole, per la ragione che non è un vezzo raro che uno scrittore usi pseudonimi (in questo caso: lo pseudonimo di uno pseudonimo). C’è altro che dal racconto porta a Savinio, ed è una casa nella località balneare Poveromo, casa di proprietà della famiglia, dove Maria e i bambini vanno per le vacanze estive.

Al di là delle corrispondenze tra la famiglia di Savinio scrittore e la famiglia di Nivasio personaggio, e nonostante il narratore, è del tutto irrilevante credere o meno autobiografico il racconto.

Un racconto, cupo e pieno di pretesti, attraversato da una pulsione di morte. Un cenone di Capodanno di cui non si saprà quasi nulla, né delle vivande, né delle bevande, né delle conversazioni intorno al tavolo. I convitati, semplicemente “i signori”. Il portiere servile incongruamente, il servo eccellente perché gesuitico, e altre quisquilie, tutto solo distrazioni. Nella casa aleggia un fantasma, il fantasma della madre morta, la ex Signora Dolcemare. Con il trapasso, questo titolo è stato assunto dalla moglie di Nivasio, Maria. Nivasio Dolcemare avverte questo passaggio come una deposizione, e questo è il dramma. Il narratore, a questo proposito, si esprime così: “La sua persona occupava la porta dell’avvenire e la precludeva altrui”. Tutto ciò induce a emettere già, se non una sentenza, almeno una presa d’atto: qui, è vero, aleggia un fantasma ma c’è anche un Complesso di Edipo. La relazione tra Nivasio, il figlio, e il fantasma, la madre, è la diade mortifera incistata nella storia. Tutto, tutto è fumo negli occhi, se paragonato all’Edipo. La cena è finita, Nivasio Dolcemare si ritira nel suo studio per crogiolarsi nelle lodi di alcuni suoi lettori. Sente un lamento fioco e triste. Gli ritorna in mente la lunga agonia della madre. Nivasio Dolcemare insegue il lamento e scopre, accanto al suo studio una stanza di cui ignorava l’esistenza. Entra. Dentro trova, vede una gallina piccola piccola. La stanza ignorata cosa può essere se non l’inconscio? Nivasio Dolcemare, lì dentro, passa allo stadio di pulcino e resta con la piccola gallina che nel lamento dice parole frammentate (in cui la parola madre si riduce alla parola ade). La gallina (post mortem: la madre) e il pulcino (ante mortem: il figlio) sono la circolarità, il compimento assoluto dell’Edipo.


Massimo Grecuccio vive e lavora a Lecce, dove insegna matematica in un liceo. Ha il vizio della lettura anche di saggi. Tanti anni fa (1997) ha pubblicato un libricino di versi (Minutame, Manni editore). Occasionalmente scrive brevi interventi critici su autori di versi della sua provincia e sull’arte visiva.


Uovo Benedetto

di Sara Passannanti

C’è qualcosa di molto disturbante nel racconto di Savinio, qualcosa che va al di là del sentirsi soltanto figlio, di sentirsi mancante davanti alle aspettative dei propri genitori. Qualcosa che va a sfiorare l’incesto e che in Mia madre non mi capisce riesce a trattenersi sulla soglia, evocando un parto indiretto, dalla gallina all’uovo e dall’uovo al pulcino.

Mi soffermerò solo su questo aspetto, benché il testo offra tantissime occasioni di meraviglia e, per parte mia, di godimento. Ma l’oscillazione tra moglie e madre è quella che più di tutte suscita sgomento, a partire dalle descrizioni dell’una che sono sempre speculari a quelle dell’altra.

Da un lato una madre che è monumentale, la sua è descritta più volte come maestà, anche sottilmente: persino il momento in cui Nivasio inizia a notare un rantolo provenire dall’altra stanza è quello in cui abbiamo un richiamo al gioco regale per eccellenza, gli scacchi, con il signor Cavallo da Marghera*. La moglie, al contrario, la vediamo in un’istantanea molto prosaica, con «la testa irta di papigliotti» e «la faccia unta di crema».

Ma la monumentalità della madre, oltre che maestosa, ci appare ingombrante: «La sua persona occupava interamente la porta dell’avvenire e la precludeva altrui». In questa frase sta tutto il senso del racconto, e ancora una volta a fare da contrappunto alla madre, è la figura di Maria che, «scintillante di gioielli», lascia invece trasparire la luce, come una lente d’alabastro, «illuminata in trasparenza da una luce interna».

E infine il racconto scivola nell’onirico, ed è grazie al buio nebbioso che Nivasio può vedere «l’altro aspetto delle cose»: di nuovo la morte come un parto al contrario, in cui chi agonizza non chiede di essere trattenuto indietro, ma chiede di essere spinto verso l’altra parte. Allora, anche lui come in una nascita al contrario, rientra nel suo uovo, la sua stanza d’infanzia, rinuncia a quella che «credeva» la sua vita. Piange, e nel suo pianto si riflette il lamento della madre, e a noi rimane l’impressione che sia infine lui a pigolare «I…ono…tu…iio» come massima affermazione possibile di sé.


Sara Passannanti, palermitana trapiantata a Torino.
Dopo un passato remoto da ingegnera, un’intercapedine in cui ha insegnato fisica, e la partecipazione al nostro corso di lettura e editing Apnea, oggi lavora per alcuni service editoriali come redattrice freelance. Guida un gruppo di lettura nel suo quartiere e collabora con la Libera Università dell’Immaginario. Da diversi anni fa parte del comitato di lettura di un premio nazionale per scrittori esordienti.

Prendila come una critica 2 – La camera oscura e troppo chiara di Savinio

di Martina Ásero

[dal nostro corso di critica letteraria a cura di Matteo Marchesini, un esercizio di elogio e di stroncatura del racconto Mia madre non mi capisce di Alberto Savinio]


ELOGIO

In una camera oscura

Mentre il 31 dicembre in casa dell’affermato scrittore Nivasio Dolcemare si celebra l’immancabile cena di commiato per l’anno al crepuscolo, in una stanza nascosta si compie un parallelo rituale  di riconoscimento che lascia i lettori stupefatti, per la delicatezza e lo strazio. Stati d’animo opposti, eppure conviventi, come tutte le situazioni che combaciano in questo breve, bellissimo racconto. Un autore imborghesito che veglia la notte con la mollezza di un poeta ormai estinto, una moglie che ha sottratto un nome matriarcale, e ha l’orgoglio, ma non la monumentalità, per poterlo indossare, un cameriere la cui furbizia, da nota di demerito, si converte in promozione professionale. Tutto nella scrittura di Savinio sembra sdoppiarsi, persino l’autore anagrammato nel protagonista. Lo sdoppiamento inizia con la collocazione della casa in una via signorile in cui le abitazioni civili si specchiano negli scheletri arborei che sporgono dal convento di fronte. La chiarezza minacciata dalle tenebre. Mi sembra un annuncio protatico di quanto si disvelerà circolarmente nel cuore del racconto, con la scoperta di un lato oscuro della casa non ancora esplorato. Come nella camera del fotografo, adagiata nel rosso, le immagini prendono vita per la prima volta nel liquido amniotico della mistura chimica, la scrittura estrae dai negativi le ombre silenziose e le espone alla nostra vista ammaliata. Dove lo fa? In un’abitazione, un interno domestico convenzionale e insospettabile dove si allentano le cerniere della razionalità. Trovo qui rintracciabile la visione psicanalitica della casa come estensione delle istanze dell’io; e il protagonista che, udendo un lamento, scopre la camera sconosciuta, ingombra di mobili dell’infanzia accatastati, è il viaggiatore dell’inconscio, pronto a tornare nella valle del rimosso, con tutto il suo carico di storia e penombra. Non trovo casuale, pertanto, nemmeno la frase incompleta della commovente gallina – la cui putrescenza risorta a nuova vita era già anticipata dalla scena del cameriere Giulio e del pollo – e che nel dichiarare la propria identità prosciuga un madre in ade: l’asportazione di due consonanti è sufficiente a riversare una vita nel regno degli spettri

Come la Coraline di Neil Gaiman o il protagonista dello Psycho hitchcockiano, anche Nivasio Dolcemare incontra un lato oscuro in questa grande allegoria dell’io che è la casa, e si congiunge al perduto, in uno sfogo commovente raggiunto nell’apice del finale. In una notte magica, con una scrittura che moltiplica l’incanto, il sommerso affiora, gli opposti si sciolgono, e ciò che separato si unisce in un eterno, riconoscente abbraccio materno.


STRONCATURA

Un’oscurità troppo chiara

Ci sono almeno due motivi per evitare di perdere il proprio tempo leggendo il datato racconto Mia madre non mi capisce.

Il primo è la banalità disarmante dell’applicazione narrativa dell’argomento scelto. Savinio seleziona luoghi comuni e stilemi freudiani per  un ordito poco originale dove basta leggere le prime righe per intuire la trama. Una via signorile preclara e dignitosa fronteggiata da rami neri che si innalzano dalle mura di un convento. Da un incipit così composto non ci si può aspettare altro che un banale saggetto sulla luce e l’ombra dell’essere umano. Dopo Star wars, per colpire il lettore contemporaneo parlando di lato oscuro, ci vuole ben altro. Il secondo motivo è l’improbabilità delle situazioni proposte che rende del tutto incredibile il piano di realtà a partire dal quale dovrebbe intromettersi l’elemento fantastico. Quale uomo si porterebbe in casa un cameriere che ha cercato di spacciargli per buono del pollo andato a male? È evidente che si tratti solo di un gancio narrativo che anticipa l’apparizione finale della gallina. O meglio: di una donna rediviva incarnata in una gallina. Esiste simbolo più trito della madre chioccia? Del tutto improbabile, poi, che uno scrittore borghese, per quanto affermato, risieda in una dimora talmente ampia da non aver avuto il tempo di esplorarne tutte le stanze. Anche qui, lo scopo narrativo di Savinio appare fin troppo leggibile, e così anticipatorio da suscitare soltanto noia in un lettore anche solo minimamente esperto.

Ancora una volta Savinio, che malamente si camuffa dietro uno pseudonimo tanto prevedibile quanto snervante, offre una prova inconsistente di presunto buon racconto e imbroglia l’occhio più sprovveduto esponendo sotto una debolissima teca di supposta oscurità, ma indiscussa trasparenza, una struttura tanto friabile quanto l’ala decomposta del suo infelicissimo pollo.


Martina Ásero gestisce un centro di formazione artistica in Sicilia e cura il canale YouTube dedicato ai libri Ima AndtheBooks. Insegna lettere alle scuole medie. Ha pubblicato narrativa per Caravaggio Editore, Centoautori e Nous.