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Prendila come una critica 1 – cuore e realtà di Alberto Savinio

di Giuseppe Cofano

[dal nostro corso di critica letteraria a cura di Matteo Marchesini, un esercizio di elogio e di stroncatura del racconto Mia madre non mi capisce di Alberto Savinio]


ELOGIO

La stanza segreta del cuore di Savinio

Nella quieta vita borghese di Nivasio Dolcemare, protagonista del racconto Mia madre non mi capisce, tutto concorre a un senso di felicità e di benessere. Il calore familiare, il successo professionale come scrittore, la cerchia di amicizie agiate: tutto riempie il suo lussuoso appartamento «di una vibrazione di felicità». Seguiamo divertiti il passo irresistibile con cui Nivasio rincasa durante una dolce serata natalizia e gli vengono incontro il portiere del palazzo, il servo fedele, la moglie scintillante e profumata, i bambini affettuosi, gli ospiti deferenti. Nivasio è un uomo appagato, non deve chiedere nulla di più alla vita.

Ma il tarlo c’è, ed è simboleggiato dalla figura della madre. Il ricordo della sua presenza forte, e poi della sua agonia e della sua morte, si ripresenterà a intermittenza, ineludibile, fino a quando crollerà il fondale delle apparenze e davanti a Nivasio si spalancherà la dimensione del rimosso (e dell’originario, che in Savinio coincidono).

La riuscita del racconto è tutta da ricercarsi nel costante contrappunto tra i due registri più congeniali a Savinio, quello fantastico (surrealistico) e quello umoristico.

Appartengono al primo le immagini tratte dell’universo zoologico e, in particolare, ornitologico, gli insistiti paralleli con tartarughe, cavalli, scarafaggi, ma soprattutto papere, pappagalli, pulcini e galline, al punto che si potrebbe immaginare una messa in scena del racconto i cui personaggi siano degli animali; la vorticosa scena di epifania finale, in cui all’interno dell’appartamento cittadino dai confini sicuri si palesa una stanza ignota e il protagonista ne viene irresistibilmente risucchiato; ma anche una certa limpidezza dello stile e un senso di placido distacco dal contingente e di sereno confronto con l’eterno, con l’irrazionale originario. Più che le ascendenze letterarie qui contano le ascendenze figurative: il surrealismo di Savinio (Nivasio è un anagramma del cognome dell’autore, a sottolineare il legame con il personaggio) ha i tratti dei quadri di De Chirico o di Dalì, e i paralleli tra personaggi, oggetti e animali, ad esempio l’automobile «simile a una grossa tartaruga addormentata» o il servo «dai piedi dolci» (ossia piatti) come una papera, hanno il vigore di una raffigurazione statica e immutabile del metafisico.

Appartengono al secondo registro, invece, alcune scene di quieta critica della costellazione psicologica alto-borghese, in particolare la digressione sull’amicizia di Nivasio con l’«impareggiabile Giulio», il «servo psicologo» che sa come irretire il suo padrone per poterlo derubare «con amore», gli eroismi casalinghi del protagonista che di notte medita mentre tutti dormono, o l’osservazione fulminante sulla suora che assiste devotamente la madre in fin di vita, ma non vuole sentire ragioni quando si tratta di andare a messa; e, anche qui, va notata, a livello stilistico, l’abilità sorniona con cui Savinio dissemina di correlativi ironici la progressione narrativa, a partire da quel «maestosa persona» con cui viene designato Nivasio sin nell’incipit, e ancora di più «la vivente Mole Antonelliana», l’epiteto attribuito alla monumentale madre.

Il racconto, nell’incedere lento e rotondo della prosa di Savinio, si sviluppa in lunga progressione. Il gustosissimo contrasto umoristico ha una funzione strutturale, è la spia per il lettore che sotto la crosta fredda della felicità si muove un magma di inespresso. Ma l’umorismo nasconde la tristezza, la malinconia trapela attraverso il manto della parodia: e quando, in quello che è forse il momento più felice del racconto, Nivasio riceve l’elogio di un ammiratore di nome Cavallo e pensa «in un breve ma lucido delirio che ora anche i cavalli ammirano i suoi scritti», non siamo più al sorriso compiaciuto dell’umorismo ma agli occhi gonfi di una dolceamara immedesimazione.

E, nell’atteso rovesciamento finale, nel momento in cui la figura materna torna in scena, non ci sorprendiamo troppo nello scoprire che la verità primigenia dell’esistenza, quella verità che è preesistente alla storia e alla società, in cui l’umanità e il mondo «si vergognerebbero della loro storia: l’Umanità della storia dell’umanità, il Mondo della storia del mondo», non si esprime con le parole, che sono il timbro delle certezze e degli scrittori, ma nella regressione all’infanzia, nell’incapacità di parlare tipica degli animali (come la piccola gallina con «l’occhio rotondo e fisso» che «mostra di non capire») e del rimpicciolimento che precede la morte («per passare dalla vita alla morte bisogna curvarsi e farsi piccoli piccoli»).

In un colpo solo Savinio, scrittore borghese, figlio della civiltà borghese di fine ottocento e percorritore di tutta la prima metà del novecento, uomo coltissimo e artisticamente poliedrico, intellettuale serenamente antistorico e costitutivamente dissonante, fa giustizia di tutti i miti della civiltà, per lasciare in piedi solo la purezza dell’infanzia, quell’infanzia passata sulle rive del suo “dolce mare” Mediterraneo.


STRONCATURA

Se la realtà non può essere rifiutata a priori

Il racconto Mia madre non mi capisce di Alberto Savinio si presenta da subito come un’umoristica parodia di una vita alto-borghese di successo. Il protagonista  Nivasio Dolcemare, alter ego dell’autore (Nivasio è un anagramma di Savinio), torna a casa durante una serata natalizia, in placido connubio con se stesso e con il mondo, che ha decretato il suo successo di scrittore e di padre di famiglia. Il portiere del palazzo e il servo fedele Giulio fanno risaltare il mondo di privilegi che per diritto di nascita sembra appartenergli; l’appartamento in cui fa ingresso è ricco, ospitale, saturo dell’affetto dei figli e della moglie; ospiti di prestigio lo attendono per tributare il giusto omaggio ai suoi successi editoriali.

Ma qualche avvisaglia ci fa dubitare di quello che vediamo. Per strada Nivasio ha già incontrato «neri rami di alberi», «scheletri arborei [che] sono il solo aspetto triste di questa via»; e la sorniona ironia di Savinio ci ha già avvisati che la «maestosa persona» di Nivasio, «abbracciata da un ampio cappotto dai risvolti larghi come porte di armadio», fa dei pensieri meno sereni relativi alla madre, la “signora Dolcemare”, ora sostituita nella sua gloria sociale terrena (il «trapasso») da una nuova “signora Dolcemare”, la moglie di Nivasio.

Le avvisaglie si fanno più insistite. Nivasio a casa viene accolto dal coro unanime degli elogi degli ospiti, ma sente il bisogno, chissà come mai, di ritirarsi nel suo studio, per rimirare l’assegno ricevuto dall’editore e l’elzeviro omaggiante di un tal Paris, che di nome fa Eraclito come il filosofo greco, e di un tal Cavallo, il cui cognome animalesco è un rimando simbolico di non minore rilevanza, se si conosce un poco la poetica saviniana.

Nivasio ha bisogno di ritirarsi in se stesso. Il dubbio lo corrode, l’esigenza di una verità più autentica serpeggia in lui. E qui si arriva, lentamente, all’epifania, al momento in cui, senza anticipare troppo della catartica scena finale, grazie all’intervento straordinario della figura della madre Nivasio capisce come stanno le cose, capisce come quello che «a Nivasio ora pare disordine, forse è il loro vero ordine».

Il limite dell’intera costruzione narrativa è da ravvisarsi proprio in questa lineare progressione, che porta a un esito atteso sin dai primi paragrafi. Il finale ci sembra scontato, il “sugo della storia” è troppo scoperto sin dall’inizio, le polarità simboliche sono troppo dichiarate: le ragioni dell’arido razionalismo astratto da un lato, gli oggetti del pensiero libero dalle intellettualizzazioni discorsive dall’altro. Si intuisce facilmente che secondo Savinio il vero stato di felicità è nella regressione all’originario connubio materno (la madre essendo il primo elemento di contrasto con la felicità del mondo posizionato in apertura, dopo la rapida menzione dei «neri rami»), in cui le parole non sono disponibili, e proprio per questo una superiore comunione con la realtà è possibile.

La parodia della società borghese, delle finzioni e dei miti della civiltà novecentesca, della storia e dell’umanità è guadagnata troppo facilmente, è un a priori della narrazione.

E tale società, altro limite del racconto, è vista dall’esterno, come il «fumo degli ospiti» di Nivasio, che impedisce qualunque tipo di determinazione. Non si analizza la sua forza seduttiva, la ragione del suo successo, se non in qualche gustoso scampolo, come la lunga digressione narrativa sull’episodio dell’incontro con il servo Giulio, che sa irretire il futuro padrone con il suo inscalfibile sorriso «da salvadanaio» nonostante abbia servito in tavola un pollo che «pute», secondo la latineggiante lamentela di Nivasio. Ma, anche in questo, il racconto paga uno squilibrio formale, l’eccesso di spazio dedicato a un costone gustoso in sé, ma eccentrico rispetto al resto. Sarebbe stato preferibile rivolgere l’attenzione all’approfondimento della ragione per cui, ad esempio, la moglie di Nivasio non abbia alcuna tridimensionalità, ridotta com’è a orpello sociale, a status symbol borghese, o i figli non possano godere di quella comunione con i genitori che per Nivasio poi si rivelerà, una volta recuperato il ruolo di figlio, un momento di disvelamento assoluto.

Anche i simbolismi e la forza figurativa di certe immagini pagano lo scotto di questi limiti fondamentali, ossia la linearità della contrapposizione e la mancanza di contraddizioni interne: il razionalismo borghese da una parte, la stanza segreta nel cuore dell’appartamento dall’altro, con i suoi animali puri e con i suoi mobili che richiamano l’infanzia.

In fondo, più che alle camere ignote dell’appartamento cittadino, Savinio avrebbe dovuto dedicarsi a quelle ben note; alle scalfiture dei mobili e degli arredi, dei muri e degli infissi che testimoniano inequivocabili le contraddizioni della società e della storia.


Giuseppe Cofano è ingegnere informatico appassionato di letteratura. Pubblica sul suo blog personale L’Incompetente articoli di critica, recensioni e interviste ad autori.

prendila come una critica! [corso di critica letteraria]


CHE COS’È


8 INCONTRI SU UN GENERE LETTERARIO IMPREVEDIBILE

Nel mondo moderno, il critico si è fatto largo come una specie di filosofo che non credeva più nella filosofia, cioè nei sistemi: un saggista morale che analizzava insieme la letteratura, la cultura e la società, perché non si può capire bene la prima se non si ha qualche idea sulle altre due.

Lungo l’ultimo mezzo secolo, questo personaggio dallo status costitutivamente incerto è rimasto però schiacciato tra università e media di massa. Con conseguenze gravi. Perché la critica è una parte della letteratura; e rifiutandola, il resto della letteratura si ammala. Perché, soprattutto, una cultura senza critica, oltre a essere una contraddizione in termini, lascia a contendersi il campo due sole figure, i fan e gli hater: finché scopre che in realtà sono una figura sola.

Per questo, anche sfidando l’apparente irrilevanza, ha senso tornare a discutere dei testi letterari e del loro rapporto con l’ambiente circostante. E ha senso provare a scriverne, imparando a mescolare adeguatamente saperi, argomentazioni e sensibilità: cioè imparando a descrivere le opere d’arte con la precisione con cui qualunque scrittore ha il compito di descrivere qualunque oggetto del mondo.


COME FUNZIONA


8 incontri in diretta online durante i quali ci occuperemo di:

  • teoria e storia della critica letteraria
  • forme e correnti della critica letteraria
  • letture, analisi, esercitazioni su brani e racconti
  • prove di recensione e critica sui testi
  • lettura e breve saggio di un romanzo italiano contemporaneo

Ogni incontro durerà 2 ore, per un totale di 16 ore di laboratorio in diretta. Ci sarà poi il lavoro da svolgere a casa e la discussione di classe e con l’insegnante sarà attiva nella mailing list CRITICA 1.


CALENDARIO DELLE LEZIONI


Le lezioni si terranno il lunedì dalle 18:00 alle 20:00, dal 5 febbraio al 25 marzo 2024.

FEBBRAIO

5 febbraio, UNA FAMIGLIA ECCENTRICA

Definizione della critica, e un po’ di storia. Lettura di brani da alcuni critici degli ultimi due secoli (De Sanctis, Proust, Wilson, Debenedetti, Fortini, Baldacci…).


12 febbraio, CRITICA DELLA CRITICA

Discussione sul sottogenere della stroncatura, con esempi tratti da altri critici (Cases, Pasolini, Raboni, Berardinelli…). Proposta di due saggi completi di due autori, con l’obiettivo di recensirli, cioè di criticarli.


19 febbraio, UNA GINNASTICA PER SOFISTI

Lettura e discussione di un racconto, su cui ogni corsista sarà invitato a scrivere due testi diversi: una recensione elogiativa, e una stroncatoria. Esempi di satira e parodia come strategie critiche estreme.


26 febbraio, ESERCIZI DI STILE

Lettura e discussione di un altro racconto, con l’obiettivo di scriverne più commenti ispirati a diverse prospettive critiche (una più attenta ai dettagli dello stile, una più concentrata sugli aspetti esistenziali, una di taglio prevalentemente storico-tematico…).


MARZO

4 marzo, IDOLI DELL’EPOCA

Indagine su alcuni autori la cui fortuna critica è molto cambiata nel tempo. Quindi, lettura di un testo narrativo dei nostri anni, e tentativo d’immaginare (prima nella discussione di gruppo, poi con un compito scritto) quali delle sue caratteristiche sono strettamente legate alla cronaca culturale di un breve periodo, e quali invece suggeriscono una possibilità di oltrepassare la cronaca e di sollecitare anche in futuro la coscienza dei lettori.


11 marzo, DA DOVE STO SCRIVENDO

Confronto tra il genere della recensione e quello del saggio più ampio; alcuni suggerimenti sull’uso dell’“io” nella critica. Scelta di un romanzo uscito negli ultimi mesi, in vista di un lavoro progressivo di analisi.      


18 marzo, TUTTI IN UN PUNTO

Lettura e discussione di alcuni brani del romanzo, nel tentativo di utilizzare insieme gli strumenti acquisiti negli altri incontri.


25 marzo, CONCLUSIONI PROVVISORIE

Continuazione dell’analisi del romanzo scelto, con lo scopo di invitare ogni corsista a scrivere un saggio sul tema.


CHI CONDUCE IL CORSO


Matteo Marchesini, critico letterario, poeta, saggista, narratore

Tra gli altri, ha pubblicato il romanzo Atti mancati (Voland 2013, entrato nella dozzina dello Strega), i racconti di False coscienze. Tre parabole degli anni zero (Bompiani 2017), le raccolte critiche Da Pascoli a Busi (Quodlibet 2014), Casa di carte (il Saggiatore 2019), Scienza di niente. Poeti, narratori e filosofi moderni (Elliot 2020), Diario di una cavia. Saggi di letteratura e attualità, (Castelvecchi 2023).

Collabora con Il Foglio, il Sole24Ore, Radio Radicale e il sito Doppiozero.


INFO E COSTI


PRENDILA COME UNA CRITICA! costa 400 euro in un’unica soluzione e 420 in due tranche.

Per chi ha già frequentato i nostri corsi c’è uno sconto del ❤️ del 10%

Il costo comprende l’iscrizione all’associazione di promozione sociale ILDA I Libri Degli Altri. (Chi è iscritto all’associazione beneficia di sconti e promozioni e può partecipare ai gruppi di lettura e visione che partiranno nel 2024).

Per informazioni e iscrizioni: ilibrideglialtri@gmail.com

Almeno da morta

A seguito della nostra ultima call, la classe di Apnea ’22/’23, insieme con la redazione e sotto la supervisione di Francesca de Lena, ha letto, selezionato e poi editato 5 racconti per la pubblicazione.

I 5 racconti sono stati letti dalla giuria di scrittrici Barbara Fiorio, Veronica Galletta e Sarah Savioli, che hanno decretato il podio.

L’autrice di Almeno da morta è Elena Marrassini. Il racconto è stato editato dalle allieve editor Chiara Averna e Ambra Dini e ha vinto il primo premio della nostra call: Progettazione, con Luca Mercadante. Il primo step del nostro coaching.


Il racconto si svolge nell’arco temporale di circa mezz’ora, all’interno dell’ufficio di una piccola impresa di pompe funebri, durante una assurda lectio magistralis tenuta dal protagonista, il quale si rende conto di avere di fronte, oltre che un cliente, una persona in difficoltà con sé stesso e con la vita, esattamente come lui, che è vissuto fino a quel momento in una bolla di lavoro e di sua madre, la sua strana madre, unica titolare dell’impresa.


di Elena Marrassini


Ma tu finora ci hai mai pensato a quelli che di lavoro lavano e vestono i morti? No eh. Però ti serve un lavoro, dici.

Ecco, mia madre faceva questo, di lavoro. Cioè, da un certo punto della sua vita in poi lei iniziò anche a parlarci, coi morti. Ma non in quel senso lì eh, niente di paranormale, nel senso che lei ci parlava mentre li lavava, li massaggiava lottando contro il rigor mortis, li vestiva a festa per la loro ultima occasione sociale.

Fu in quel periodo che scoprii la voce di mia madre: non aveva parlato per anni, da quando ero nato non ricordavo la sua voce.

La tua parlava e basta, dici? Bah, non so quale sia la cosa peggiore, in effetti. 

Sul serio non hai mai lavorato, vivevate della sua pensione? Okay, ti occorre un lavoro. Ho capito, ho capito: zero esperienze lavorative, figlio di ragazza madre. Soffriva di depressione. Impiegata alle Poste, beh ci credo. Una vita trascorsa in casa, la tua. A fare l’uomo di casa immagino. Quanti anni hai detto che hai, quarantacinque? Siamo quasi coetanei, amico. E forse siamo anche quasi uguali, fidati.

Io l’ho imparato che ero un bambino, questo mestiere. Basta passare del tempo qua dentro, e te lo ritrovi tra le mani, fidati. Io ci ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza in un piccolo laboratorio simile a questo, assieme a mia madre, ai morti, e a Chi.

Sì, perché io e mia madre al posto di mio padre avevamo un papero di nome Chi.

Il papero, come tutti i paperi, all’inizio della nostra convivenza ci soffiava contro e starnazzava con le ali aperte, poi smise. 

Mio padre, come quasi tutti i padri, all’inizio della nostra convivenza ci adorava. Poi smise. E iniziò a soffiarci contro. 

Conosco chi è stato, solo a pezzi, quelli che mi ha raccontato mia nonna, sua madre, nei primi anni di me bambino, prima di sparire insieme a lui. Jack Dinato, così si chiamava. Era mezzo italiano e mezzo americano. Nacque sordo, nel 1946. Com’è che dicono, figli della guerra? Ecco lui era uno di quelli: padre americano e madre italiana, figlia di contadini trasferiti dal sud nelle campagne toscane, quelle un po’ salate che hanno il mare vicino. Mia nonna mi disse che all’inizio pensò che fosse nato scemo. D’altronde il soldato americano con cui l’aveva concepito se lo ricordava bene lei, anche se erano entrambi ubriachi di Tuaca: era sì tanto bello e profumava di cioccolato e tabacco, ma si vedeva dallo sguardo e dai calzini messi sempre a rovescio che capiva poco. E anche dal fatto che confondeva in continuazione destra e sinistra, right and left, mandritta e mancina: niente, non c’era verso.

Infatti fu lei a scappare dal soldato e non viceversa, come succedeva di solito. Era una tosta mia nonna: smise di andare a passeggiare con le amiche vicino al mare la domenica pomeriggio e non volle vederlo più. Quando si accorse di essere incinta fece finta di nulla per settimane. Voleva solo divertirsi, come le sue amiche e come i soldati americani belli, giovani, biondi e con le tasche piene di dolci. Era una festa, finalmente, le strade assolate e i carri armati come alle giostre che ci si poteva salire sopra tirate su dalle braccia forti di un bel ragazzo con due spalle così. E invece niente, l’unico bello e scemo lo aveva trovato lei e, mentre le sue amiche continuavano a divertirsi, mi raccontò che a lei vennero le nausee e la pelle le si macchiava col sole dell’estate. Mi raccontò che una notte all’improvviso le sembrò di sentirlo muovere e decise che oramai per toglierlo di mezzo non era più in tempo e allora okay, il bambino sarebbe stato solo suo, si sarebbe chiamato Jack e avrebbe creduto alle storie raccontate da lei su di un padre americano con il suo stesso nome, ricco di beltà ed eroismo, portato via dalla guerra. 

Salvo poi vomitargli addosso tutta la verità una sera che lo trovò completamente ubriaco, verso i diciassette anni, l’ho capito da una lettera indirizzata a mio padre che ho trovato nel suo comodino con un rosario avvolto attorno alla busta che trasudava odio dalla carta ingiallita. Mia nonna era figlia di un alcolista, ubriaco e violento. Lo sapeva che se feriva moglie e figlia sarebbe rimasto solo a lavorare, e allora picchiava a sangue le bestie. Tanto se morivano sarebbero finite nel sugo, diceva. E mia nonna vomitava, rabbia e sugo mangiato a forza. Quindi immaginati: un figlio sordo doveva e poteva accettarlo, ma un figlio sordo e ubriaco a diciassette anni no, e lo fece diventare astemio. Non ho mai voluto sapere come, meglio non saperlo e nemmeno immaginarlo: sarebbe stata capace di ingozzarlo come un’oca da foie gras per sdegnarlo dall’alcol.       Era veramente tosta mia nonna, sì. Dette il suo cognome al bambino e lo allevò insieme ai suoi genitori, ai quali assicurò che sarebbe stato maschio, per tener calmo suo padre, Lei lo sapeva che sarebbe stato maschio, mi disse. E infatti fu Jack. E, anche se non sentiva, aveva bellezza e forza: avrebbe lavorato bene la terra nel silenzio dei campi in mezzo al granoturco e ai girasoli. 

E così è stato, fin quando non si intestardì di fargli ottenere l’invalidità, convincendolo a fare il bidello nella scuola media del paese, ché un lavoro sicuro e una pensione sarebbero stati la sua salvezza gli diceva sempre, via dai campi, via dagli animali maltrattati via dal nonno, ubriaco sempre più spesso. Ma Jack venne ben presto distrutto di insulti letti nel labiale e di scritte sui muri dei bagni: i ragazzi delle medie, lo sai anche tu, sono dei veri stronzi. Alle superiori poi peggiorano, lo so bene pure io, Valentino Dinato detto Valdi, nato sordo da un orecchio, nel 1974. In fondo mi è andata meglio che a mio padre. Jack e mia nonna questo mi lasciarono, a soli nove anni: un orecchio guasto e la lingua dei segni, ma senza dare alcun indizio di ciò che stavano preparando: la loro fuga in America. Da quando iniziarono i pettegolezzi sul bidello che non parlava ma si scopava in rigoroso silenzio l’insegnante di inglese, mia madre smise di usare anche la lingua dei segni. L’ultima cosa che disse agitando le mani e gli occhi fu quella-troia-è-bellissima-ma-è-una-troia-ricordatelo-schifo-di-un-sordo, me lo ricordo come se fosse ieri. Se ne andarono, lui e mia nonna, forse aiutati dal padre di Jack, che in Illinois pare fosse diventato uno dei maggiori produttori di mais (sembra che le indagini di mia nonna fossero partite dal retro di una scatola di corn flakes acquistati per me). Mia nonna preferì lasciare me invece del figlio; in fondo io ero sordo solo a metà e lui del tutto. E poi, a ognuno la propria madre, io rimanevo con la mia, quella piccola e brutta, che non parlava mai, a parte coi morti. E con Chi.

La nostra vita coi morti e con Chi è iniziata nel momento in cui mio padre se ne è andato. Quando comparve il papero mia madre iniziò a parlare, con due vivi: me e il papero.

Come vuoi chiamarlo? Mi chiese. Io risposi chi?, ma un po’ così, in preda allo shock, come tutte le cose che dicevo e facevo in quei giorni in cui mio padre se ne andò via di casa soffiando, rosso in volto, becchettandosi con mia madre che lo inseguiva agitando le mani come fossero ali. Due uccelli muti, e danzanti in quella loro lotta insanabile. E lei, che in quei momenti aveva voglia di discutere ancora meno del solito – come biasimarla – mi disse va bene, lo chiamiamo Chi.

Ero in quarta elementare quando successe, nello stesso momento in cui la nuova maestra si accorse che non ci sentivo per niente da un orecchio. D’altronde chi avrebbe potuto accorgersene prima, vivendo con una nonna che con me parlava sempre e solo per vomitare ricordi e con un padre che comunicava solo a gesti. E con mia madre, non si comunicava. Altri parenti non ce ne erano.

Ricordo che tutti i miei compagni delle elementari ebbero la foto dell’anno scolastico 1983/84 con la nuova maestra sorridente e i loro genitori; io ebbi quella con mia madre, che in quel periodo aveva sempre la stessa espressione e indossava delle improbabili parrucche, una diversa ogni giorno, e la maestra terrorizzata col papero accanto che soffiava, ma che evidentemente già non sapeva fare a meno di stare vicino a me e mia mamma. Poi c’ero io, alto poco più del papero, e si notava, oh se si notava. Eh, ridi tu, bravo. Io non ridevo mai, soprattutto nelle foto. 

Io già lo amavo Chi, eravamo due disgraziati, piccoli aiutanti di mia madre, in tutto, e a volte uniti contro di lei: ci guardavamo negli occhi e ci si capiva subito, non è vero che i paperi sono stupidi, sai.

Quando giravo per il paese con lui accanto nessuno dei ragazzi più grandi si sognava di darmi fastidio o prendermi in giro; se ci provavano, Chi apriva le ali e soffiava e partiva verso di loro, caricandoli. D’altra parte, nessuno ha mai pensato di farlo fuori: avrebbero dovuto vedersela con mia madre, e sarebbe stato sicuramente peggio.

Quanta soddisfazione mi ha dato quel papero non te lo immagini neanche. Di sicuro molta di più rispetto a Jack. Almeno lui mi è stato accanto nei momenti più complicati, tipo quando hai paura che ti crescano i baffi e sei alto appena un metro e cinquanta e quelli più grandi ti chiudono nei bagni della scuola e ti minacciano a colpi di strisce depilatorie rubate alle sorelle più grandi. Chi ha sempre preso le mie difese, bastava che gli indicassi coloro da cui avevo ricevuto l’offesa e lui agiva. Mica subito eh, aspettava il momento giusto e poi agiva. Non è vero che i paperi sono stupidi, l’ho già detto? Non ce l’avrei fatta da solo con mia madre e i suoi interminabili silenzi. La presenza del papero fra noi dava equilibrio, ci faceva essere in tre. Tutto è più stabile con tre punti di appoggio, soprattutto le famiglie. Eh, lo so che lo sai.

Chi si dedicava a quella donnina astiosa con una pazienza che credo nessuno abbia mai avuto con lei. Le stava accanto mentre tagliava l’erba del prato con le forbici da cucina. Spesso questa loro attività durava giorni, chiaramente. Mia madre diceva che dalle suore aveva sempre funzionato così. Diceva che ai bimbi dell’istituto veniva imposto di tagliare il prato in ginocchio con le forbici. Più grave era l’infrazione commessa più piccole erano le forbici. Lei fu l’unica a cui una volta toccarono le forbici da unghie, mi disse spavalda. Non si capiva mai quanto la mamma lavorasse di fantasia o di ricordi. 

Quando le chiedevo perché non comprasse un tagliaerba come tutti mi rispondeva che lei non era tutti, né io né lei né Chi eravamo tutti, e che i soldi ci sarebbero serviti per farne altri e diventare più ricchi, e allora sì, avrebbe assunto il giardiniere.

Spesso quando tornavo da scuola e lei non era stata convocata in qualche camera ardente per preparare un cadavere (volevano tutti lei, da tutta la provincia) li trovavo intenti in quella occupazione. Erano alti uguali, lei in ginocchio e lui accanto che beccava senza mai rovinare l’erba. Appena mi vedeva comparire, il papero girava la testa, era il suo segnale di felicità: ruotava di poco il lungo collo, come facevo io quando la gente mi parlava dalla parte dell’orecchio morto: giravo leggermente la testa per mettermi in linea con l’orecchio buono. Lui faceva così solo quando vedeva me. È campato fino a diciannove anni, mi ha lasciato che ne avevo quasi trenta. 

Quanti ne ho adesso? Quarantotto. E sono solo come un cane. No, non ho un cane. Dopo la morte di Chi non ho più avuto animali domestici, non lo so perché, forse avevo troppo da fare ad addomesticare mia madre, e i suoi morti. Sì, esatto, più o meno come te. Sposato, io? Fidanzato? No. Sono solo io, Valentino, ino in tutti i sensi, mi hanno chiamato come il protettore degli innamorati, ti rendi conto?

A scuola invece ero il morto-di-figa, MORTO maiuscolo, si sentiva da come lo dicevano, oppure scrivevano cose nel bagno delle ragazze tipo «Valdi tanto bellino, peccato gli piacciano più i morti della figa». E io mi vergognavo, sempre di più. Mi vergognavo del mestiere di mia madre, mi vergognavo dell’unica cosa che la rendeva sicura, ricercata e poi, con il tempo, anche benestante. Che poi alla fine si è messa in proprio mia madre, qui in città, scoprendosi capace di investimenti immobiliari e anche nell’organizzazione del personale. Era brava, c’era poco da dire, brava coi morti e coi soldi. Ci tirò fuori dalla miseria in cui ci aveva cacciato quel frustrato di mio padre.

E insomma sì, qualche donna l’ho avuta, ma è stato tutto, sempre, molto, faticoso. Sì, sono etero. La prima, Isabella, l’ho avuta a ventuno anni (mai stato precoce io, in niente). Mi invitò al matrimonio della sorella nonostante ci conoscessimo da poco più di una settimana; voleva fare sul serio con me, mi disse che avevo un bel viso da ragazzo buono e un lavoro sicuro. Che dovevo fare? Mi prese alla sprovvista e allora ci andai con il vestito buono e le scarpe del morto che in quei giorni era in laboratorio, aveva le mie misure precise, non era un uomo alto, e a parte le scarpe un po’ piccole, il resto era perfetto e di gran buon gusto. Dio però che male ai piedi a quel matrimonio, menomale che all’inizio del pranzo comparve mia madre come una furia, mi prese a schiaffi e iniziò a strapparmi di dosso i vestiti per correre a rimetterli al morto (ché il prete che aveva appena sposato la mia futura cognata avrebbe di lì a poco dato inizio alle esequie dell’uomo nudo e scalzo in bara) e quando per prima cosa mia madre mi tolse le scarpe, perché se c’era una cosa che la disturbava dei suoi amati morti era vedere i loro piedi nudi, ricordo il sollievo immenso e credo di essermi messo a ridere di gratitudine.      

Credo che quella sia stata l’unica volta in cui non me ne è importato nulla né della brutta figura né tanto meno di Isa, ma lei mi serviva ecco, dovevo togliermi di dosso il marchio appiccicoso di “sfigato”, e riuscii a convincerla a fare sesso per la prima volta. Però quando si accorse che l’avevo deflorata nel laboratorio buio dell’impresa funebre su al paese, nella vecchia sede, sui divanetti della sala d’attesa a pochi metri da una cassa in mogano lucida che era stata chiusa la sera stessa e che conteneva Giacinto, il vecchio edicolante, si arrabbiò tantissimo, sembrava posseduta, e io mica ho mai capito perché. La stanza era invasa da mazzi di giacinti profumatissimi, che erano, chiaramente, i fiori preferiti dal morto. A me sembrava un’atmosfera perfetta. Oltre a essere l’unico posto fuori casa del quale avevo una copia delle chiavi. Vabbè. Isa mi lasciò malissimo, e mi tolse il saluto.

Con quelle a seguire è andata anche peggio. Anche perché mia madre mi tolse le chiavi del laboratorio.

Comunque mi sa che era l’aura di mia madre a tenermi alla larga dalle ragazze.

Era una misantropa, taciturna, cresciuta dalle suore, in quel posto di angeli e bestie, come lo chiamava lei le poche volte che ne parlava. Parlare per lei era faticoso. Credo che abbia sposato mio padre perché era sordo. Era anche bello, dicono, e dalle foto mi sembra di sì. Ma lei fu attratta dal fatto che con lui ci fosse da parlare poco, credimi, ormai la conosco, che sacrificio sarebbe stato mai esprimersi a gesti e sorridere spesso. Un uomo bello e silenzioso, cosa doveva volere di più lei, un metro e quarantacinque per quaranta chili con una testa sveglia, sì, ma con un viso storto appoggiato sopra alla bell’e meglio e pochi capelli radi in cima. Di me dicono che sono uguale a mio padre. Menomale, anche se io non lo ricordo. Forse perché l’ho rimosso. Quando Jack sparì, mia madre, la vedova bianca del sordo, come la chiamavano in paese, diventò pazza. O forse no, non si è mai capito.

Mi ha insegnato tutto, di questo lavoro. Mi ha insegnato come si abbassano le palpebre a quelli che arrivano con lo sguardo della paura o con gli occhi bianchi. Mi ha insegnato a mettere il morsetto di plastica sotto il mento per chiudere le mandibole che arrivano spalancate dallo stupore, coprendolo con un bel foulard al collo, mi ha insegnato come si adattano i vestiti tagliandoli dalla parte posteriore, che tanto lo vedi Valdi, mi diceva scuotendo la testa, il morto sta sdraiato supino, non dà più le spalle a nessuno ormai. Sotto la sua guida ho imparato a imbottire arti martoriati da incidenti e a truccare volti tumefatti.

Dopo il nostro trattamento quei corpi erano puliti, eleganti, raffinati. Riuscivamo ad addormentarli con l’espressione sana sul viso, come quella dei bambini. L’ho guardata per anni mentre lavorava, la Vedova Bianca del sordo, forse le ho anche fatto da marito. Mi raccontava la storia di ognuno. Chiedeva, anzi scriveva, ai parenti di raccontarle cose, pezzi di vita di coloro che avrebbe preparato per il viaggio. Diceva che altrimenti non sarebbe riuscita a prepararli come si deve, doveva conoscere almeno un po’ i morti quando erano stati vivi.

Mi raccontò della signora delle parrucche, quelle che spesso finivano in testa anche a mia madre. Arrivò al laboratorio fredda e calva, ma era stata una gran bella donna, lo si vedeva anche da morta. Si diceva tagliasse i capelli ai bambini mentre dormivano. Era un’insegnante di scuola materna. Sembra che durante il pisolino dei bimbi tagliasse loro delle ciocche di capelli per farne parrucche, che poi donava alle donne in chemioterapia che non potevano permettersele. Pare sia stata costretta al prepensionamento più dall’ira delle mamme dei piccoli che dal suo cancro. Ora che ci penso, forse quando mia madre portava le parrucche in quel periodo assurdo dei miei nove anni e aveva appena scoperto la mia semi-sordità e il fatto che mio padre non l’amava più, magari era malata pure lei. Non mi stupirebbe scoprire che è stata in chemio senza dire niente a nessuno. 

Sono sempre andato da lei mentre preparava i morti, erano gli unici momenti in cui parlava, con loro, ma anche con me. Faceva come i chirurghi: operava con la musica in sottofondo.

Quando toccava ai bambini non c’era musica, non c’erano storie. Ci stava da sola. Io lo capivo quando preparava un bambino perché magari qualche sera arrivavo lì con le pizze nel cartone per una delle nostre cene col morto, come le chiamavamo noi, e vedevo il cartello alla porta. Non potevo entrare, me ne tornavo a casa. In quelle sere l’aspettavo sveglio: sapevo che sarebbe tornata con la faccia disfatta e di un colore diverso e mi avrebbe riempito la testa di baci chiedendomi da quanto tempo era che non cambiavo il pigiama. Poi dormivamo assieme nel mio letto e Chi si accoccolava sul tappeto, lui con il muso dentro le sue ali, mia madre con il muso dentro le mie braccia. A volte in quelle sere mi addormentavo desiderando che anche il giorno dopo morisse un bambino, e anche quello dopo ancora, almeno poi la sera stavo con lei in quel modo. Poi la cosa mi pareva terribile, come ci diceva il prete all’oratorio di quando muore un bambino e mi veniva voglia di vomitare.

Comunque ci siamo fatti pure delle gran risate io e mia madre eh, come mai prima, quando in casa c’erano mio padre e mia nonna coi loro musi lunghi. Ci divertivamo a dare i voti alla biancheria intima dei cadaveri e stilare classifiche su slip, boxer e culotte, e ci incuriosiva vedere chi di loro arrivava con le unghie pulite oppure no, indice di famiglia scrupolosa e attenta al particolare, m’insegnava mia mamma. E a cui potevamo anche gonfiare un po’ la fattura.

Ricordo che una volta la gonfiammo assai, quella volta dei puntini da unire come sulla Settimana Enigmistica, unica lettura che mia madre si concedeva tutte le sere prima di dormire.

Ci arrivò da preparare il figlio della Iole, la farmacista, che con il marito aveva scoperto che tutti gli esami sul libretto universitario del figlio erano inventati. Ci giunse nudo, reduce dall’autopsia, e lo scoprimmo cosparso di piccoli tatuaggi nascosti nei punti più nascosti di quel suo corpo pieno di sonniferi. 

Ne aveva uno strano, sotto al piede destro: tanti piccoli punti, sparsi ma non troppo. Ci guardammo, con la speranza di scoprire chissà quale codice di quale tesoro. Mia madre prese subito la biro e superando la sua riluttanza per il piede nudo del cadavere iniziò a unirli, da sinistra verso destra, vedendo comparire, dopo qualche tentativo fallito e cancellato addirittura con la sua saliva (era come invasata, non l’avevo mai vista così) la scritta fottetevi.

Rimase zitta, a me scappava da ridere ma lei esordì con «che stronzo codardo, ammazzarsi appena iniziano i problemi invece di combattere», afferrò la Settimana Enigmistica dalla sua scrivania e si mise a fare un Bartezzaghi, l’unica cosa che la calmava. Mi ordinò di finire di prepararlo da solo e di caricare la fattura quanto bastava per prendermi un abito e un paio di scarpe nuove, di marca, che me lo meritavo, io. Quello lo ricordo come il giorno in cui smettemmo ufficialmente di convivere con l’ossessione del risparmio: il mestiere ingranava, e ingranava bene.

Era raro che mia madre si arrabbiasse mentre preparava i morti, quello accadeva molto più spesso a casa, per quello io sfruttavo al massimo lo stare con lei in mezzo ai morti: quando c’erano loro andava tutto bene. E poi, te l’ho già detto, in mezzo a loro io e lei ci si parlava, si rideva, si piangeva, ci si confidava.

La vidi così cattiva e piena di rabbia solo quella volta che sputò fuori all’improvviso tutto il livore silenzioso (e come sennò?) che aveva covato negli anni nei confronti di coloro che mi rendevano la vita impossibile, a partire da mio padre per finire ai ragazzi della scuola.

Accadde quando andai al laboratorio da lei, perché mi aveva detto che quel pomeriggio c’era il morto da pulire e vestire. Arrivai lì assieme a coloro che portavano il sacco con dentro la salma, e vidi che avevano usato il sacco piccolo, quindi stavo per andarmene, pensando a un errore, che si trattasse di un bambino e pregustando già la serata di baci sulla testa. Ma lei mi disse di rimanere, che mi avrebbe insegnato una cosa, era ora che la imparassi.

Entrai nella stanza tremando, ero agitato. Aprimmo il piccolo sacco e vidi che si trattava di un nano. Mia madre iniziò a svestirlo piano, era già rigido.

«Levagli le mutande, così ora lo vedi coi tuoi occhi che non è vero nulla che i nani hanno il pisello enorme, come ti dicono i tuoi compagni per prenderti in giro, che credi, che non lo sappia? Ti danno del nano senza sapere nemmeno cosa vuol dire, quei bastardi. Sfilagli le mutande.»

Tolsi le mutande al nano che ancora tremavo, la vedevo con gli occhi cattivi e pieni di un bene per me che non avevo mai visto. Vidi un piccolo pene bianco, come tutto il resto del piccolo corpo, a parte la testa sproporzionata.

«Visto?» mi disse acida «Ce l’ha piccolo più di quello di tuo padre, il che è quasi impossibile, credimi.»

Scusa, parlo solo io, penserai che sono pazzo, lo vedo che mi guardi e ti domandi perché mai ora questo mi ha raccontato tutta questa storia. Perché sono agitato, scusa; quasi quanto quella volta del nano. Perché è la prima volta che la racconto a qualcuno guardandola da fuori ed è la prima volta che mia madre non c’è, e l’idea di assumere un assistente fisso è stata sua. Perché, secondo me sei capitato nel posto giusto al momento giusto: se ce l’hanno fatta mio padre e mia nonna, se ce l’ha fatta mia madre, se Chi è vissuto diciannove anni nonostante me e mia madre, magari ce la fai anche tu. E magari ce la faccio anche io. Perché credo di poterti dire che ci si salva. Ognuno trova un modo. Mia madre i morti, mio padre e mia nonna l’America, io un papero, e ora forse te, che il figlio della becchina se fai e le cose per bene ti assume sul serio.

Andiamo di là adesso, che c’è da preparare le nostre madri. Il tuo lavoro inizia oggi. Facciamo così: io preparo la tua e tu la mia: è di là in laboratorio sdraiata supina e ieri sera, prima di morire, mi ha chiesto di farla bella, almeno una volta. Almeno da morta, mi ha detto.


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Polly TV

A seguito della nostra ultima call, la classe di Apnea ’22/’23, insieme con la redazione e sotto la supervisione di Francesca de Lena, ha letto, selezionato e poi editato 5 racconti per la pubblicazione.

I 5 racconti sono stati letti dalla giuria di scrittrici Barbara Fiorio, Veronica Galletta e Sarah Savioli, che hanno decretato il podio.

L’autore di Polly TV è Luca Dore. Il suo racconto è stato editato dalle allieve editor Daniela Pala e Dalia Merotto e ha vinto il secondo premio della nostra call: la consulenza sull’idea, con Francesca de Lena.


Marzio Maran, titolare di un’emittente privata prossima allo spegnimento digitale, in auto insieme alla sua amante slovena e al suo ex socio cui deve migliaia di euro, provoca un incidente stradale. Gli uomini si salvano mentre la ragazza, Apollonija, finisce in coma. Maran annuncia il suicidio in diretta dalla sala rianimazione, ma viene bloccato. I video finiti in rete fanno crescere l’attenzione e viene creata una trasmissione in streaming chiamata Polly TV, con un vero palinsesto quotidiano.


di Luca Dore


La telefonata tanto attesa da Marzio Maran arriva insieme ai digestivi – due maraschini offerti dal padrone del Capitano – e si protrae anche alla cassa, mentre lui cerca con pacche plateali la carta di credito nelle tasche della giacca. Apollonija passa in rassegna i fiori finti del ristorante, le saliere assemblate con cura, l’acquario appannato. Le è consentito guardare ogni cosa. E toccare. E ficcare l’anulare nella vasca delle aragostelle.

«Ci penso io. Tenga questa», dico per smorzare l’imbarazzo del giovane cassiere in attesa, e così Maran, che intanto esibisce la sua poderosa stretta di mano con bacio sulle guance al proprietario, mi deve trentamila euro giusti giusti.

Poi esce, prima di tutti, senza mai staccare l’orecchio dal cellulare.

Ed esco anch’io, con una ricevuta in penna azzurra su foglio a quadretti. Lo tallono a un centimetro, per ricordargli l’ammontare del suo debito.

Apollonija saluta, baci soffiati urbi et orbi e uno vero al cameriere più giovane.

Per tutto il pomeriggio è rimasta in spiaggia da sola, mentre Maran ogni mezz’ora le prometteva di arrivare. Invitarla a cena al Capitano è l’unico modo che ha trovato per farsi perdonare.

Forse da lei. Non certo da me, dai miei due figli, dalle mie sedici rate di mutuo residue.

Fa spallucce quando gli racconto delle minacce della mia banca o di quelle, venate di sangue, della mia ex moglie; non riesce a capacitarsi che a qualcuno possano servire davvero trentamila euro di arretrati.

Anche quando mette in moto, Maran continua ad annuire al telefono. Ma gli vengono fuori solo sbuffi e colpi di tosse. Si tocca la bocca dello stomaco, cercando conforto in Apollonija. La ragazza si volta verso di me, il suo naso è buffo e sensuale, gli occhi sgranati. Illuminata dalla lampadina del cruscotto dice: «Fa sempre così. Beve, beve e poi li sale gas da stomaco».

Maran si piega sulla destra del sedile per liberarsi dal fastidio della giacca e agganciarsi la cintura. Ne approfitta per tirare fuori la lingua, cerca il sale sulla coscia sinistra di lei, che ride e lo caccia con un pugno delicato sulla testa.

Quando riesce a fissare l’enorme smartphone alla calamita sul cruscotto e a schiacciare il tastino del vivavoce, Apollonija fa conoscenza del timbro stonato di Regazzoni, di cui io invece ho nausea.

Le ultime parole percepibili sono: «Marzio, mi dispiace. Avremmo voluto fare di più, ma… Ci vorrebbe una montagna, ti dico, una montagna di soldi. Sai che vor di’ in italiano switch-off: che noi ce la prendiamo in culo!».

Basta. Poi lo schianto.

La cabina a torretta della società elettrica, un parallelepipedo di cemento color zabaione, non aveva mai mietuto vittime. Ma non può opporsi allo scavalco di corsia di un ubriaco che cercava di grattar via i granelli di sabbia dagli slip di una ragazza.

Io, come probabilmente racconterò l’incidente negli anni a venire senza troppi particolari, esco dall’auto con le mie gambe.

Apollonija ha il cranio spaccato, su ogni frammento di vetro del parabrezza un campione del suo gruppo sanguigno.

Sul «Gazzettino» dell’indomani, a tutta pagina la foto del “miracolosamente illeso” Marzio Carmine Maran, titolare di TeleSabina. “Per la donna che lo accompagnava, A.V. 28 anni, trasferita d’urgenza al Santa Chiara, la diagnosi è riservata”.

***

Marzio Carmine sa che appena dimesso dal Pronto Soccorso non potrà più contare su sua moglie, principale finanziatrice di TeleSabina, anche se da sempre porta il suo nome.

La donna non credeva all’esistenza della “puttana slava”, così come la avvertivano le mie telefonate anonime negli ultimi tempi. Ma ora che la foto del cranio spaccato è sui giornali, si è arresa. 

Non tirerà fuori nemmeno un soldo per risollevare l’emittente, tanto meno per salvare lui. Gli concederà giusto di abitare nella casetta in campagna, un rustico mai ultimato dove Maran era solito eseguire in boxer il grande show dell’accensione del camino davanti agli occhi di Apollonija, e prima ancora di Giorgia, la lettrice precaria del notiziario. Il tappeto bianco peloso davanti al fuoco impressionava le ragazze; quello, e l’odore di soldi che emanava il suo petto depilato e profumato.

Gli restano una telecamera a spalla, uno smartphone ancora attivo malgrado lo schianto, una scatola di gadget di TeleSabina. Qualcuno ha avuto l’ironia di poggiargli queste poche cose accanto al letto della stanza Uomini4.

Per me è solo questione di ore; non sarò ricoverato, né auscultato, né considerato dall’azienda sanitaria.

Come ogni notte nell’ultimo anno torno a casa dai miei. Certo, non si aspettavano di doversi riabituare alla luce azzurra del televisore della mia cameretta malgrado abbia già trentacinque anni e un matrimonio finito di cui a tavola non parliamo mai.

Sul 98 del digitale terrestre il segnale è ancora attivo, lo sarà per altre quarantotto ore. C’è una striscia di ultimissime con le notizie di una settimana fa. E la solita animazione di fine trasmissioni, un atomo che descrive ellissi sempre più lunghe; ricordo di aver pagato un programmatore per quella sigla.

Negli ultimi tempi l’effetto nebbia finale ha il potere di inocularmi il sonno. Una piccola febbre mi si attacca al retro delle orecchie. Giro e rigiro il cuscino per averlo sempre freddo a contatto. 

Ma la luce nella stanza è decisamente reale. Non è un prodotto della febbre: il vano inseguimento del pallino grigio è sparito e Marzio Maran parla da quel cazzo di televisore.

Non è la casa di campagna, c’ero stato diverse volte, soprattutto con Giorgia, quella del notiziario.

Maran è un primo piano ossessionato dalla sua cintura di pelle: «Cuoio di prima scelta. Toh, com’è lunga. Domani alle 20, in diretta nazionale, non mancate. Su TeleSabina, canale 98 del digitale terrestre. Contro tutti i figli di puttana che l’hanno stretta attorno al collo dell’Italia che lavora! Domani alle 20. Vedrete che fine fa un vero uomo. Bastardi. Non è quello che volevate? Eliminare la pluralità, la chiamate così quando vi fa comodo. Vi ricorderanno per quello che siete: gli assassini di un uomo che ha dato tutto per la sua azienda».

Ritorna l’atomo, ma il sonno ormai se n’è andato.

***

Di primo mattino vado a recuperare Marzio nell’unico posto plausibile.

All’ingresso pretendono la tessera sanitaria, ma non è sufficiente per il Santa Chiara; solo un parente stretto di Apollonija può entrare.

«Non volevo essere costretto», dico alla guardia giurata che scorre con cura tutti i suoi messaggi Telegram, «ma credo che qualcuno sia già nella stanza della ragazza, da diverse ore».

«È impossibile», fa quello, il viso grasso e i riccioli induriti da un gel al pantenolo.

«Se vuole glielo dimostro. Cambi canale», e tocco il suo televisorino lcd che barcolla ogni volta che l’infermiera scrive qualcosa sul tavolo, «Metta al 98, per favore».

Allunga la faccia contro lo schermo, riconosce la tenda bianca e il crocifisso fluorescente, presenti in tutte le stanze dell’ospedale. «Chi è questo pezzo di merda?».

«No, non è pericoloso! Non è tipo da levarsi dalle palle così in fretta».

Esce dalla guardiola, le scarpe antinfortunistiche scricchiolano sul linoleum verso la sala rianimazione.

L’infermiera cerca il tasto del volume, così che l’astanteria si accorge man mano di quello che sta accadendo. 

Approfitto del varco e li seguo.

Maran, la stessa camicia magenta, piange sgranato in primissimo piano sull’unica videocamera che gli è stata restituita, le lacrime gli riempiono la bocca. Dietro di lui Apollonija, in questo o in un altro pianeta vicino, dorme.

«Lei non meritava tutto questo. Quando l’ho conosciuta, oh, mammamia non ci voglio pensare, lei faceva la vita… Gustav, se mi stai ascoltando, sei un sacco di merda! Le avevi promesso di farla ballare in teatro. Guardala come balla adesso». 

Maran prende fiato. Ogni strattonata sul cuoio gli suggerisce nuove idee: «Cosa ci mancava a TeleSabina? La cultura, avevamo. La musica, avevamo. Né più né meno come quella monnezza che rifilate ai vecchi. Sì, perché voi siete vecchi, e morti, ma sapete ancora uccidere un uomo».

L’irruzione – se così si può chiamare lo sfondamento di una porta imbiancata da poco ma completamente marcia – avviene in diretta. Il vigilante non ha capito bene cosa succede, deve solo convincere l’uomo a uscire, dice: «Non fare cazzate, ammolla la cintura».

Non può immaginare che pochi minuti dopo il video è già sui social e la sua battuta scoordinata un meme nazionale.

È mattina quando l’ormai mio ex-socio viene accompagnato in questura. Mi passa davanti, la giacca sulle spalle, nessuno gli ha messo le manette. Ne approfitto per dirgli: «Ti è andata male, ma domani mattina sarai già a casa. E sarò lì davanti a ricordarti quello che mi devi».

Lui finge un dolore intercostale e costringe il poliziotto a chiamare soccorso; vado via in tempo per non subire la pantomima.

E per arrivare in forma alla grande notte dello switch-off. 

***

Attendo le 23.59 in piedi di fronte al televisore, con la giacca e le scarpe infilate, pronto a uscire. Festeggerò la fine delle trasmissioni al Capitano.

La beatitudine del momento è spezzata, Teresa mi chiama per dirmi che alla piccola servirà un apparecchio odontoiatrico. Costa una fucilata. E devo riavere i miei soldi. 

L’infame non risponde, anzi il cellulare nemmeno squilla. O ha cambiato operatore o l’hanno arrestato per davvero.

Decido di riprendere l’evento per i posteri, col mio telefonino.

Sul timer mancano cinque secondi. 

Quattro. 

«Fanculo!».

Due.

«Atomo di merda, accelera!». 

Uno.

Off.

Velo nero morte: in basso una riga bianca che si espande, prende spazio nello schermo: dalle 8 di domattina ci trovate su PollyTv.it.

***

Dietro l’idea dello streaming c’è quella vecchia faina di Regazzoni, ma chi tiene il frustino in mano è una certa Camilla detta Milly, presentatrice in un circuito regionale.

Il (tentato) video-suicidio di Maran ha fatto il botto, ne hanno parlato pure su Rete4.

PollyTv trasmette dalla suite di una clinica privata, Maran ha una nuova giacca bianca e il viso abbronzato. Regazzoni l’ha costretto a radersi e gli ha pagato uno sbiancamento dentale.

Deve stare dove gli dice Milly, in ginocchio a favore di luce, accanto al letto della ragazza. Può dire ciò che vuole, può insultare sé stesso e gli altri. Gli è proibito bestemmiare ma, peggio che mai, nominare TeleSabina.

 Alle undici l’intervista di Maran al primario: «Ai nostri follower serve una buona notizia: ci dica che la ragazza si salverà, ritornerà a sorridere, splendente più di prima».

Il professore nicchia ma poi si lascia andare: «Nella mia clinica abbiamo già all’attivo quattro miracoli, quindi perché non sperarci?» e si passa tra i capelli grigi la mano col Rolex.

A mezzogiorno in punto parte un gingle: delle forchette animate danzano. E subito l’attenzione si sposta sulla cucina dell’ospedale. A Maran viene affidata una piccola GoPro, che zooma fino al coperchio di un pentolone: «Mmmh… cosa propone oggi lo chef?».

E la chef, una congolese che a malapena riesce a tenere i capelli crespi dentro il cappello, mette le mani davanti alla bocca, ma risponde: «Stufato. Tutto bono. Fatto con patate, piseli e cipolline».

«Ho già l’acquolina in bocca», e tira fuori la mossetta che tanto gli era servita negli anni Novanta per chiavarsi sette aspiranti soubrette del suo programma, così come recitano gli atti del processo.

Dopo pranzo Maran prega, insieme a un crocchio di bigotte professioniste della chiesa ortodossa.

Alle sedici una scolaresca viene a trovare la Bella addormentata. Appiccicano i disegni sui muri della suite e fino alla spalliera di metallo. Le insegnanti si fanno i selfie accanto al respiratore.

Se Milly ruota una manopola invisibile, come a sollevare la temperatura della stanza, lui sa cosa deve fare. E si alza, per fustigarsi con la cintura di pelle che su eBay sta a quattrocento euro. Piange e infierisce sulle braccia nude.

Ogni tanto il primissimo piano va sul volto bollito, a mostrare la prova fisica cui è sottoposto un sessantaquattrenne costretto a vivere questo infinito interno giorno.

***

Dopo una settimana di trasmissioni, con il canale che va a bomba, ho l’onore di ricevere una telefonata da Maran.

«Sei sempre stato un pezzente» dice, «come una zecca, sei. Ma non lo vedi che ti mollano tutti? Tua moglie, i tuoi figli. Fatti una vita, e impara a risollevarti, hai visto come si fa? Sai quanti ne ho conosciuti di imbecilli che pur di apparire, pur di galleggiare, erano disposti a tutto?»

Torno in sala da pranzo a terminare la partita di Scala40 con i miei.

Prima c’è stata una lugubre cena di brodo a risucchio, malgrado i trenta gradi notturni percepiti. 

Mia madre chiude e io pago cento, con tutte le carte in mano, come quando mi sbancava da bambino.

«Lo vedi? Non cali, non cali, e poi… arriva qualcuno e ti fotte».

Loro ridono di questa improvvisa volgarità di mamma, strizzano gli occhi e portano su le labbra a mostrarmi i denti.

Poi mio padre torna serio: «Oggi non ti sei nemmeno lavato».

Sta per farmi un cazziatone, come quella volta del calumet di vetro. «Allora, a questa pagliacciata è il momento di darci un taglio. Fa’ quello che devi!».

Ma vengo distratto dalla campanella: mi avverte che c’è un nuovo video in diretta.

Le luci sbattono su pannelli dorati, e sulle cosce oleose di una ragazza. Licinia Bale, pornostar, recita la targhetta a basso schermo. Ma io la riconosco all’istante: è Giorgia, in eterna lista d’attesa per leggere il notiziario delle 20.

La cantante in sottofondo col vocoder non è comprensibilissima, ma il ritornello, “Polly Nights” arriva anche ai meno esperti.

Licinia gioca col suo vestitino soffice, lo slaccia, si perquisisce, si punisce con sculacciate poderose, strizza i capezzoli.

Poi il colpo di genio: rimasta con un perizoma diamantato di bigiotteria si avvicina al letto. Scosta il lenzuolo dalla parte inferiore, il tanto che serve a mostrare al pubblico i bei piedi sloveni di Apollonija. A casa non si rendono conto delle piaghe sotto i talloni. Si ficca in bocca l’alluce di Apollonija, affonda e torna su più volte, accompagnandosi con dei mugugni.

Poi mette le mani a coppa come a dire: Cosa ho fatto? 

Sulla sigla accenna bye bye.

La comunità festeggia i primi centomila seguaci.

***

Le ultime energie le spendo per cercare il mio uomo della Provvidenza. 

Il biglietto è stato un regalo dei miei, dopo la pensione di settembre.

È un viaggio di lavoro, ma vedere dall’alto l’Italia per un attimo mi rende meno coinvolto in quello che vi accade, come avere tre giorni di vacanza dal purgatorio.

Non è stato difficile arrivare a lui, sono bastate due ore sui social e cento euro a una sua segretaria per avere il whatsapp diretto.

Eppure, mi fa un effetto distorto sedergli accanto in un lounge bar di Lubiana. Anche il modo con cui mi fissano i suoi uomini non era atteso. Il più raccomandabile allarga la giacca e mi offre una cannuccia per la bamba; ma io so rifiutare con garbo.

Gustav corpore praesenti puzza di guai da un chilometro. Gli portano un divanetto, così che possa spaparanzarsi e grattarsi le cosce, annusarsi i baffi e bere la sua vodka in pace.

Abbiamo entrambi un interprete, anche se il mio parla un inglese da seconda ragioneria. 

Nella sala dalle pareti viola la parola su cui ci inceppiamo più volte è: dignità.

Dice che non viene in Italia da parecchio e che non ha più tanta voglia di rischiare; poi però piega la mappa della clinica privata e se la ficca in tasca. 

Gustav rutta e viene aiutato a sollevarsi, io sono pronto a stringere con la stessa forza la sua mano di pietra, ma è inarrivabile. E si accorge che ho sudato. Fa cenno al tizio della bamba e quello mi lancia un bonifico in diretta. La Slovenia è il Paese più civile del mondo.

***

Tornato in città vado dritto all’agenzia immobiliare. 

«Ma perché non rimani da noi, che ci fai compagnia?». Ci prova, mia madre.

«No, non mi freghi più. Ogni volta che mi alzo scegli sempre le carte dal mazzo, lo facevi anche quand’ero bambino», e ci abbracciamo.

Al Capitano ho un tavolo riservato e due ragazze con abiti da sera identici che tirano a turno la mia cravatta. Sul cellulare mi mostrano esempi dei loro giochini, mi dicono di sceglierne quattro, inclusi nel prezzo.

***

Il segnale in periferia è blando, ma seguo con grande interesse le vicende della povera Apollonija, la nuova star di LoveLubianaTV.

E lascio che il telefono squilli per ore, immagino Maran diventare giallo di bile, bestemmiare e lanciarmi anatemi.

Al quinto giorno gli rispondo: «Mi hai cercato?».

«Io ti rovino, ti faccio ammazzare».

«Parla più forte, non riesco a…».

«Dov’è finita Polly?».

«Sta bene adesso, l’ho restituita al suo padrone».

«Sei un bastardo».

«Però lui è più generoso di te. Tu gliel’avevi comprata per tremila euro, mi ha detto così, e il signor Gustav non mente, è persona d’onore». 

Ammutolisce, e io continuo: «A me ne ha dati trentamila. Non sei contento? Adesso il discorso tra noi due è chiuso. Ti ha salvato uno zotico che sa di piscio».

«Hai distrutto un’operazione artistica che qui in Italia non si era mai fatta prima…».

«Un’operazione artistica. Oh, è quello che fanno anche loro, con un canale già bello avviato, la comunità ben salda, gli sponsor e tutto. La suite non è bella come quella che avevate voi. Ma cos’altro gli manca? La tua faccia disperata in primo piano? O la pornostar bollita? Rassegnati Marzio, avevi ragione: i pezzi di imbecille disposti a tutto pur di galleggiare li trovi ovunque».

***

Le file ai provini nell’ufficio del produttore si intensificano nei successivi dieci giorni di programmazione. Gustav apre un nuovo casino a Lubiana.

Alla fine dell’estate entra in squadra anche Justina, amica di sangue della povera Apollonija e come lei brillante e bellissima. A suo tempo ha solo avuto la fortuna di contare su una famiglia e poter rimanere in Slovenia per terminare l’università.

Porta con sé il concept per un programma sugli insetti, “Imparare a volare”.

Aspetta che gli igienizzino la stanza e l’operatore piazzi la camera. Osserva con pazienza, in piedi accanto al letto. Ha un camice azzurro che le accende il viso, gli zigomi cosparsi di lacrime.

Apre la sua cassetta trasparente e le farfalle si sparpagliano nella stanza. «Solo le più forti lottano giorno dopo giorno per sfuggire ai predatori», dà inizio alla performance mentre il cameraman ne segue più che può, così che ognuno di noi possa affezionarsi a quelle più sgargianti. «Le altre preferiscono lasciarsi catturare» continua, «abbandonano il proprio Paese, diventano la troia di qualcuno» urla, tentando di coprire il fischio di allarme dell’apparecchio che tiene in vita Apollonija. Spalanca gli occhi in camera e mostra al pubblico a casa l’attacco del respiratore, «Le più forti non mollano mai!», sentenzia, e stacca la spina. 

La porta è sbarrata dall’interno e l’operatore troppo lento per intervenire.

Il finale della sua breve trasmissione dovrebbe essere un pugno di farfalle che supera il finestrone, applausi registrati e sigla.

Gli infermieri e le guardie sfondano la porta, ma ormai è tardi per recuperare Apollonija; Gustav il pappone fa un ultimo tentativo e le si sdraia sopra per massaggiarle il cuore.

Appena si accorge che non c’è nulla da fare, rovescia il letto e quello che contiene in diretta nazionale; Justina e il suo camice azzurro a quel punto sono già alle porte di sicurezza.

L’ultima inquadratura è fuori fuoco, dal basso verso la finestra: le cime degli alberi intorno alla clinica e un aereo rosa che punta verso l’Italia.

Spengo lo streaming e salgo a piedi il corso sotto la pioggia, raggiungo casa dei miei con una bottiglia di vino e un mazzo di carte nuove. Nel tragitto il telefono non smette di vibrare. Gustav avrà certamente un’idea su come aggiustare il nostro affare.


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Il pane di Sant’Antonio

A seguito della nostra ultima call, la classe di Apnea ’22/’23, insieme con la redazione e sotto la supervisione di Francesca de Lena, ha letto, selezionato e poi editato 5 racconti per la pubblicazione.

I 5 racconti sono stati letti dalla giuria di scrittrici Barbara Fiorio, Veronica Galletta e Sarah Savioli, che hanno decretato il podio.

L’autrice di Il pane di Sant’Antonio è Emanuela D’Amore. Il suo racconto è stato editato dalle allieve editor Silvia Pillin e Giovanna Tondini e ha vinto il terzo premio: una scheda di lettura redatta dalla caporedattrice Patrizia Carrozza.


La protagonista di questo racconto è la madre di una bambina affetta da trisomia 21. Lasciata dal marito, la donna prova un senso di quiete solo quando fantastica sulla morte o sull’abbandono di sua figlia. Ma sarà il miracolo profano posto a chiusura del racconto a donarle una nuova e più durevole serenità.


di Emanuela D’Amore


A volte sogno animali cattivi, animali furiosi che vogliono aggredirmi.

Mi sveglio con la pelle trasparente e in quei giorni mi copro parecchio prima di uscire, perché si leggono attraverso la cute tutti i miei pensieri.

Il mio corpo non detta più. L’amarezza paralizza dita e saliva. I miei seni non umiliano più il mondo. Li tengo stretti in petto come un peccato.

Era un amore riottoso quello per lui, grosso come un’arancia. Io la addentavo e quella mi colava rossa sulle labbra, in certi giorni ruvidi di sole.

Poi è arrivata Ludovica e lui se n’è andato. Una sostituzione.

Avrei voluto trattenerlo, tenergli forte la mano e ficcarmi in bocca le sue dita, ruvide di peli neri, fino a riempirmene le guance. Masticare il suo tatto e il mio amore.

Sono passati tre anni.

Mi guardo allo specchio prima di uscire di casa, al mattino.

Nuda. Solo un pennarello tra le dita.

La mia vagina sbuffa.

Ricalco col pennarello il tratto sbiadito del giorno prima. Lo faccio tutti i giorni.

Ho una macchia sotto il capezzolo destro. Ne tengo sott’occhio la forma. Ne delimito i bordi. Controllo che non cresca. Potrebbe essere maligna. Il medico mi ha detto che va tutto bene. Il mio medico dice sempre che va tutto bene. L’ha detto pure quando ero incinta di Ludovica.

Quando ho avuto la meningite, da bambina, mia nonna mi raccontò la storia del miracolo di Sant’Antonio, oltre il vetro che ci separava nel reparto di rianimazione. Con il polpastrello disegnava animaletti ossuti sulla condensa del suo alito.

Tommasino aveva due anni e viveva in una catapecchia vicino alla Basilica del Santo. Con le tignole, le scope di saggina, i pitali e le foglie di tabacco. Sua madre probabilmente stava spettegolando con le comari in cortile mentre intrecciava l’aglio o sgranava pannocchie, e, quando rientrò in casa, trovò Tommasino a testa in giù, tra le carote e le cipolle, nel pentolone bollente della cena.

Lo tirò fuori per i piedi sudici e callosi, ma il bambino non dava più segni di vita. La donna iniziò a piangere e a gridare. Accorsero tutti i vicini, perfino i frati dalla Basilica e a loro giurò che, se il Santo le avesse fatto la grazia, avrebbe donato ai poveri tanto pane quanto pesava il bambino. Tommasino d’improvviso spalancò gli occhi confuso.

Mia nonna mi ha ripetuto spesso questa storia, con la sua voce acquosa. Mentre mi imboccava facendo l’aereoplanino dopo aver soffiato sul cucchiaio per raffreddare il brodo; quando mi rincalzava le coperte o mi intrecciava i capelli; per strada fino a scuola, tenendomi per mano verso l’interno della carreggiata; mentre mi preparava la merenda. Il burro, le molliche, l’odore del braciere.

Nella tasca del grembiule, tra gli elastici, le figurine Panini e le sorprese che uscivano dall’ovetto di cioccolata, avevo sempre un’immagine del Santo.

Quando nacque Ludovica, mia nonna le posò un santino nella culla, sotto le api colorate e la sua fronte piatta e strabica. 

Il pane di sant’Antonio non si butta.

Una fauna ossuta affolla i miei incubi.

A volte sento una stretta alle caviglie. Sento come delle mani che mi afferrano e bloccano i passi. Metto d’istinto le dita in tasca, come da bambina, quando dovevo andare a prendere le bottiglie di pomodoro in soffitta e mi paralizzava la paura. Sotto le unghie mi resta la poltiglia lasciata dal Santo in lavatrice.

Lui si era allontanato, me ne ero accorta. Era indolente.

Ho pensato che stavo dedicando troppo tempo a Ludovica, che lo stavo trascurando.

Eppure l’ha voluta lui. Io non la volevo. Dopo l’amniocentesi, non me la sentivo. Mia nonna si è schierata dalla sua parte e a maggioranza hanno deciso per il mio utero. «Il pane di Sant’Antonio non si butta!».

Forse è colpa di Ludovica, se se n’è andato. Della sua testa sgraziata, della saliva che le cade dalla bocca, del suo corpicino scianco. Dei movimenti ciondoloni, che lascia appesi e incompiuti.

Io, mio marito, me lo sarei tenuto così, difettato, sporco, come tutto quello che è nella mia vita, come i capelli di Ludovica.

E a quel punto l’ho scoperto, lui non ha nemmeno provato a negare. Forse voleva che lo sapessi. Probabilmente non ce la faceva più a nascondere e a giustificare. All’inizio avrà pensato che con un figlio le cose sarebbero cambiate. Che l’istinto di paternità lo avrebbe tenuto lontano da ogni evasione. Ma poi con una figlia così non ha retto. Si vedevano quando portava la bambina al parco. L’ha usata. Si è approfittato di quella bimba ritardata che non sapeva parlare. Immagino Ludovica, lasciata al sole, con la frangia appiccicata sulla fronte, mentre si ficca in bocca la sabbia dei giardinetti. O la vedo parcheggiata sul sedile posteriore di un’auto, mentre guarda dallo specchietto retrovisore suo padre accarezzare un uomo.

Si frequentavano da prima che ci sposassimo. Avevano studiato insieme all’Università. Probabilmente non hanno mai smesso di vedersi da allora.

Forse è colpa sua se è nata così. Mi ha riempita con spermatozoi storpi.

Ho letto che l’omosessualità esiste in natura anche in altre specie e serve per regolare le nascite e tenere in equilibrio l’ecosistema.

Mi guardo riflessa nello specchio. Osservo la macchia e di colpo mi sento come in una serra dai fiori bellissimi, stordita dagli odori. Mi arrivano tante immagini tutte insieme che fatico a trattenere, riconoscere e ordinare.

I ricci di mare sotto al piede. Le mani sporche di grasso di mio marito, mentre aggiusta la catena della bici. Lui che avvicina alla mia bocca un pezzo di pane, inzuppato nel sugo. I suoi gesti ampi, mentre lava i piatti, e il sole che ci ho visto dentro. I pomeriggi in ospedale, quando, abbracciati alla finestra, seguivamo il disegno delle scie degli aerei, in attesa dei risultati delle analisi. La sua mano tra i capelli di Ludovica appena è nata.

Corrono via, si mescolano, diventano altro. Come la configurazione veloce che prendono le nuvole in certi giorni carichi di pioggia.

Mio marito era questo stridore. 

Di notte la stanza diventa elastica. Si dilata per contenere l’odore di pannolino sporco di Ludovica, i miei incubi, le forbicine della polvere. A volte si richiude su se stessa, come un carillon, e io mi sveglio soffocando.

Mi addormento con i collant. Mi piace il solletichio delle lenzuola sul nylon delle calze. Ho come l’impressione di una carezza. Ho l’illusione, mentre dormo, di avere qualcuno accanto a me nel letto, qualcuno che mi tocchi.

Certe notti Ludovica si sveglia urlando. I gesti scomposti da animale impazzito. Il volto inespressivo e un grido roco in bocca. Poi si blocca di colpo e prende a fissare il soffitto con gli occhi spalancati. Resta così a lungo, assente. Cosa vede? Le passo una mano sugli occhi. Glieli chiudo. Mi spaventa, quando fa così.

Appena nata, non voleva succhiare dal mio seno.

«Sente il tuo rifiuto», mi diceva suo padre. E preparava il biberon col latte in polvere. La allattava lui. 

Mi sono svuotata le mammelle col tiralatte, come una mucca.

Quando suda Ludovica ha un odore di circo. Di segatura e letame. I suoi capelli prendono la consistenza dell’immondizia quando la bagna la pioggia, se è accaldata.

La macchia sotto il mio seno si è un po’ slabbrata. Se io muoio, che ne sarà di Ludovica? Me la stringo al petto. Voglio proteggerla. Da tutto, da tutti. Dagli sguardi che indugiano, da quelli che si ritraggono troppo in fretta, dalle carezze pietose, dagli insulti, dagli inciampi e dalle meschinità, dal disprezzo, dai sorrisi compassionevoli, da tutto quello che non saprà e non potrà mai fare, e che scaverà un divario sempre maggiore tra lei, i suoi coetanei e il resto del mondo. Da chi la guarda solo come un volume che occupa uno spazio, un peso fiscale per la società, che sottrae il posto macchina più comodo nelle aree mercatali.

Ha quell’odore di biscotti sciolti nel latte, di pigiama stropicciato. Un calore che sale dal suo corpicino soffice, di spugna. Mi metto in bocca le sue mani, le mordicchio la pancia. Lei ride con piccoli grugniti. Mia figlia ride sempre e mi perdona.

A volte penso di farle del male.

Oppure immagino che le capiti un incidente. Cade dalla sedia e si spacca la testa, annega, un’auto in corsa la investe. Lo schianto, i vetri rotti sull’asfalto. Ludovica coi suoi capelli arruffati in una pozza di sangue. E io resto a guardare. Senza correre, gridare o pregare, come la mamma di Tommasino.

Questi pensieri mi trasmettono un senso di quiete.

In altri momenti, invece, penso che stia facendo la muta. Che dalla sua bocca piena di saliva uscirà una grossa farfalla. Una di quelle tropicali. Presuntuose e irriconoscenti, dai colori cromati. E umilierà il mondo e tutte le creature divine.

Immagino di abbandonarla davanti a una porta. Suono il campanello, corro in macchina e scappo via. La lascio davanti a una villetta a schiera con lo steccato pastello, i cespugli a forma di animali e il prato curato. Gli irrigatori in azione. Immagino di affidarla a chi saprebbe prendersene cura meglio di me.

Come sarebbero i suoi capelli allora? Raccolti in una treccia a spina di pesce? Stretti in due codini da elastici colorati? Ordinati da una scriminatura a zig zag? Forse acconciati in uno chignon da ballerina di danza classica.

Quando guardo una mia foto, cerco di trovarci qualcosa di Ludovica dentro. I capelli stopposi, il broncio del labbro, l’angolo del sopracciglio, la curva che fa l’attaccatura dell’orecchio quando lascia spazio al lobo. Niente. Mia figlia non mi somiglia. Ha i tratti della sindrome.

Quando usciamo Ludovica si muove maschia e contadina, trascinando le scarpe ortopediche come se stesse pattinando, gli occhi puntuti. Fissa le persone a lungo, prima di toccarle con le mani umide di saliva. Ha il mento di suo padre. E una quiete che non appartiene a nessuno.

Ma certi giorni le prende una gioia violenta, che in pubblico mi imbarazza. 

Capita che gli altri bambini abbiano paura di lei ed è l’unica occasione in cui piange.

Si muove come dietro a un antico ritmo processionale. Lenta. Una piccola madonna mesta, trasportata a braccia su un fercolo che traballa.

Il suo linguaggio è un canto sacro, senza lessico. Che a volte mi incanta, altre mi affatica.

Spesso strattono la sua insopportabile lentezza.

Dovremmo fare un viaggio.

Una volta l’ho sognata adulta. Avrà avuto vent’anni.

Parlava al telefono con un’amica. I capelli raccolti in una treccia, un velo di lucidalabbra. Scarabocchiava distratta su un block-notes, mentre spettegolava ridacchiando. D’un tratto alzava lo sguardo e mi sorrideva.

Talora le parlo come si parla a una pianta grassa. Con pensieri che scivolano con l’impeto di una slavina. Oppure placida e sconnessa. 

In certe circostanze è la mia copertura: mi legittima a parlare da sola a voce alta anche tra la gente.

Non mi ruberà mai un vestito dall’armadio, un rossetto, il segreto per tenere saldo uno chignon con le forcine, per dorare il ciambellone al punto giusto.

Anche un’altra volta ho sognato Ludovica adulta.

Era nuda. Senza un pelo, senza un capello, senza ciglia o sopracciglia. Senza denti. Senza  unghie. E mi guardava quieta.

A volte vorrei camminare nel mare. L’acqua salata che graffia la gola e pesa sulla testa. Nessun suono. Il passo che affonda nella sabbia del fondale. E poi più niente.

Il vento fuma la sigaretta al posto mio, mentre sono affacciata al balcone. Ludovica compare sulla soglia con la sua fronte piatta come un osso di seppia. Lo sguardo storto e attento, della fuliggine sul naso. Non so dove si sia andata a infilare, come si sia sporcata. D’un tratto un’ape le si avvicina. Ludovica grida e gira su sé stessa. È un attimo. Poi è lei a rincorrere l’ape a bocca aperta, cercando di mangiarla, tra le mollette sparse a terra, l’odore di bucato e di basilico. Rido. Quando mi vede ridere, ride sempre pure lei. Si fida della mia risata e batte i piedi per terra con gridolini che soffoca premendosi le mani sulle gengive. Quelle mani sempre sporche, quella voce cruda. Ride tra i soffioni che si sfaldano nel vento. Diventa bella, un geranio di sole. Dovrei ridere di più.

Oggi la macchia è più larga. È enorme, gigantesca. 

Ho paura. Mi prende una sensazione disperata di dissolvenza.

Voglio mia nonna. Voglio mio marito. Non voglio morire, non da sola.

Mi si annebbia la vista. Mi viene da vomitare. Mi butto sul letto e mordo il cuscino. Piango con singhiozzi grossi da temporale.

Ludovica, a passi randagi, si arrampica sul materasso. Ha sangue rappreso sulla gamba. Si è fatta male e non me ne sono accorta. Mi guarda con sguardo saggio e ottuso.

D’un tratto si attacca al seno e succhia. Il contatto pelle a pelle mi calma. La carne nuda.

Sant’Antonio ci guarda con una clemenza inaudita dal comò, tra il disordine di spazzole, lozioni e creme antirughe.

La osservo succhiare la mia macchia maligna. È attaccata a questo seno senza più latte. E mentre si addormenta placida tra le mie braccia come mai prima d’ora, le racconto storie tenere e sfatte.
Mia figlia ha un odore pulito e sano, i suoi capelli sono lucidi e mi solleticano la pelle. Si raggomitola contro il mio corpo scarno. Lo riempie. Gli restituisce le forme, la femminilità, consistenza. Accolgo questo piccolo miracolo ateo, profano e ignorante che mi sta appena uscendo dalle cosce. Da una placenta vecchia e sbrindellata. Guardo la mia bambina che poppa bianca come un girino di luce, e mi calmo.

Nacque. Nasce. Ogni giorno.

Domani andrò dal fornaio.


LEGGI QUI TUTTA LA NARRATIVA DELLA NOSTRA RIVISTA

ipotesi di romanzo [scuola di scrittura]


CHE COS’È


Il corso di scrittura che esplora i principi universali della narrazione insieme a quelli particolari della tua idea, che ti lascia immergere nel tuo bagaglio emotivo mentre ti insegna i capisaldi razionali del fare storie: amalgama il tutto e ti fa scrivere con ragione e sentimento.


Il corso di scrittura in cui il coach non si mette sul trespolo a fare bellissimi, tanto poetici quanto astratti discorsi sullo scrivere ma si siede al banco a fianco a te, ti pone gli stessi interrogativi che pone a sé stesso quando scrive, e ti conduce a progettare la tua storia.


Alimentare l’immaginario creativo. Maturare una voce autoriale consapevole. Ipotesi di romanzo è un percorso per conoscere le 2 facce contrapposte e indispensabili dell’atto di scrivere: lasciarsi andare, razionalizzare. E farle funzionare insieme, su un progetto concreto.


COME FUNZIONA


19 incontri in diretta virtuale

Ogni incontro dura due ore (ma spesso si sfora)

Da novembre 2023 ad aprile 2024

Ogni mercoledì dalle 19:00 alle 21:00

6 mesi di laboratorio per un totale di circa 40 ore di lezione


Il 1° blocco di lezioni s’intitola La trasfigurazione autoriale: uno spazio accogliente e non paternalista in cui allenare consapevolezza e autonomia e prendere dimestichezza con i punti di partenza e d’arrivo della narrativa: la solitudine e la comunicazione.


Scrivere è spogliarsi pezzo dopo pezzo seguendo il ritmo delle emozioni e dei ricordi.



Il 2° blocco di lezioni è La logica della trasformazione, in cui tracceremo il percorso che dalla prima intuizione conduce a un nocciolo di storia e da lì a un’ipotesi di romanzo. Si approfondirà e riempirà di senso il proprio immaginario emotivo, incanalandolo in un progetto concreto che sia:

  • riconoscibile dall’esterno: perché la scrittura è prima di tutto comunicazione
  • significativo: perché un romanzo deve toccare corde universali

Scrivere è disciplina e progettazione, imparare a manipolare forma e contenuto.



OBIETTIVI


L’obiettivo del corso è avere tra le mani il proprio progetto di romanzo: pronto, senza buchi, senza dubbi, che funzioni.
S’impareranno a manipolare tecniche di narrativa avanzate e ci si calerà in un laboratorio esperienziale ma non ludico: uno spazio insieme emotivo e pragmatico che conduca a un traguardo concreto in base alle proprie attitudini.

Si ottiene:

  • un’impalcatura pronta, narrativamente e editorialmente valida per procedere con la stesura completa del proprio romanzo.
  • tecniche e conoscenze drammaturgiche.
  • educazione e allenamento al gesto creativo.
  • un metodo di lavoro testato e valido per l’ideazione di tutte le proprie storie.

Pitch finale per tutti e borsa di studio per il migliore: a conclusione del percorso i partecipanti esporranno a lettori professionisti il progetto elaborato durante il laboratorio. Il lavoro migliore secondo la redazione ILDA verrà premiato con un coaching individuale di progettazione.



CALENDARIO DELLE LEZIONI


1° blocco: La trasfigurazione autoriale

mercoledì 8 – 15 – 22 – 29 novembre, 06 – 13 – 20 dicembre 2023 e 10 – 17 gennaio 2024 dalle 19:00 alle 21:00 su Zoom


Piantiamo semi di una pratica di scrittura che dia libero sfogo all’immaginario emotivo, mantenendo però l’obiettivo di un futuro prossimo in cui la sperimentazione verrà incanalata in un progetto concreto. In poche parole: iniziamo a scrivere prendendoci sul serio.


08 novembre

Cercare un quotidiano creativo tra emotività e razionalità. Diari e confessioni: chi siamo veramente? Chi raccontiamo di essere? Scopriamo quali sono i talenti da allenare per poter scrivere storie. Esercitazioni per liberare la scrittura.


15 novembre

Cosa è una storia? Esistenze narrative. Esistenze reali. L’essenza della narrazione: la trama in un guscio di noce. Allenare e ampliare l’immaginario creativo.


22 novembre

L’oggetto della narrativa tra Verità e Realtà. Spingere al limite l’immaginazione per avviare il processo di stesura di una storia. Dolore, piacere, perdita. Imparare a conoscere ed esercitare la memoria del corpo, tradurla in scrittura.


29 novembre

Altro che eroe! L’anima della storia: il protagonista, anzi: i suoi demoni! Il personaggio principale è il perno intorno al quale girano tutti i meccanismi della storia. Facciamo con lui un salto nel vuoto, andiamo incontro all’ignoto portandoci dietro il lettore. Caratterizzazione vs rivelazione, di cosa è fatto un personaggio, cosa gli serve davvero per essere un protagonista?


06 dicembre

Maledetta famiglia: come affrontare il nostro retaggio e come ammaestrare questa incredibile riserva di energia drammatica. Le svolte narrative e quelle esistenziali.


13 dicembre

Autopsia della pagina: scene azione, scene dialogo, sommari e riflessioni.


20 dicembre

Le cose sembrano diverse a secondo di chi le racconta, o forse lo sono? Punti di vista: pro e contro di ognuno.


27 dicembre e 3 gennaio

Pausa di scrittura


10 e 17 gennaio

Officina creativa: due giornate laboratoriali per la valutazione in classe di quanto prodotto dagli allievi durante la pausa


2° blocco: La logica della trasformazione

mercoledì 24 – 31 gennaio, 07 – 14 – 21 febbraio, 06 – 13 – 20 – 27 marzo e 3 – 10 aprile 2024 dalle 19:00 alle 21:00 su Zoom


Che cosa è la trama e perché non possiamo farne a meno. Capire il disegno delle storie, finalmente.


24 gennaio

Maledetta trama! Il plot esterno, quello interno e il relazionale. Schemi, paradigmi e punti di svolta. Impariamo a non fare di questi strumenti gabbie, ma a pensarli come risorse.


31 gennaio

Un mare già in tempesta: quando comincia davvero la storia? approfondiamo il Primo Atto.


07 febbraio: La lunga traversata ovvero sopravvivere alla stesura del Secondo Atto.


14 febbraio: Un lungo addio: Atto III, un sacrificio necessario.


21 febbraio: l’idea iniziale, il concept e poi sinossi, soggetti, trattamenti e scalette. Scegliamo la strategia per cominciare a scrivere che sia commisurata alle nostre esigenze.


28 febbraio: pausa di scrittura


Laboratorio

Mettiamoci tutti in gioco!

Durante queste cinque settimane gli allievi parteciperanno alla nascita dell’idea e alla progettazione della struttura di un nuovo romanzo proposto dal coach e nello stesso tempo lavoreranno alla propria idea.


06 marzo: Prima l’uovo. Esposizione delle idee in stato embrionale e scelta di quella potenzialmente più valida


13 marzo: Una storia un tema. Applicazione della logica della trasformazione sulla singola idea e prime ipotesi di una trama esterna che supporti adeguatamente il plot interiore e viceversa


20 marzo: Giro giro tondo: Il protagonista e i suoi conflitti relazionali.  Far crescere i propri personaggi


27 marzo: “Cappuccetto rosso è sola nel bosco”. Avviare la storia stabilendo le differenze tra mondo ordinario e mondo straordinario


3 aprile: Dal concept al soggetto breve e poi il pitch. Raccontare l’intera storia in poche, precise ed esaustive parole. Strategie e metodi. Come sopravvivere alla passione per la scrittura.


Pitch

10 aprile: presentazione della propria idea a lettori professionisti


CHI CONDUCE IL CORSO

Luca Mercadante: scrittore, coach di scrittura


Menzione speciale della Giuria della XXX edizione del Premio Italo Calvino per il romanzo Presunzione, MinimumFax. È autore, con Luca Trapanese, di Nata per te. Storia di Alba raccontata tra noi, Einaudi. Insegna scrittura creativa qui per ILDA e per librerie, biblioteche e associazioni di Napoli e Formia. È responsabile del coaching Scrivere un romanzo.

La stanza dentro gli scrittori è la sua idea di scrittura.


INFO E COSTI


Il costo di IPOTESI DI ROMANZO si divide in 3 tranche: 350 all’iscrizione, 200 entro dicembre 2023, 200 entro febbraio 2024.

I costi comprendono l’iscrizione all’associazione di promozione sociale ILDA I Libri Degli Altri.

Per informazioni e iscrizioni: ilibrideglialtri@gmail.com

Il pontile

A seguito della nostra call Interno giorno, la classe di Apnea ’22/’23, insieme con la redazione e sotto la supervisione di Francesca de Lena, ha letto, selezionato e poi editato 5 racconti per la pubblicazione. L’autrice di La compagnia è Roberta Spagnoli, e il suo racconto ha richiesto pochissime correzioni, a cura dell’allieva editor Eleonora Giudici.


Olga vive in ospizio e riceve la visita di Erminia, amica di una vita. Olga sembra persa nella fragilità dell’età mentre Erminia celebra una vitalità giovanile ancora forte. La percezione si ribalta quando cominciano a rievocare un episodio traumatico di gioventù.


di Roberta Spagnoli


Come ogni mercoledì Erminia arriva, fresca di parrucchiere, e con un cenno mi chiede come sto. 

Sto qui nella sala comune, come gli altri, le rispondo. Come gli altri sto seduta, in attesa che venga il mio turno. Come sto. Sto nel mio puzzo di borotalco, con le mani storte che tremano.

Lei mi guarda diffidente, trattiene un po’ il respiro, come se la vecchiaia fosse contagiosa.  

Sa che non le manca molto: il suo turno è sempre più vicino, sarà questione di sette, otto anni al massimo, poi mi raggiungerà. Non spaventarti però, la rassicuro in silenzio. La vecchiaia è un buon alibi in molte situazioni, a volte è comoda e spesso sa anche essere stravagante, stralunata, eccentrica. Guarda la patta dimenticata aperta di Rino o le calze che rotolano lungo le gambe di Nina perché l’elastico si è allentato; osserva Gigi, che per concentrarsi meglio nel suo burraco gioca con la dentiera facendola rotolare all’interno della bocca. A volte ci viene da ridere, a volte tutto diventa patetico e ci fa solo rabbia. Ma è un attimo, perché anche la memoria fa presto a cedere. La vecchiaia è spensierata, grazieadio. 

Ormai l’unica vita che conosco è questa. Vista dall’interno di queste stanze, dentro la mia testa che ragiona a vuoto, per lo più. Non è una vita bella, ma nemmeno più brutta di quella che mi è toccata prima, per tanti anni. È solo diversa perché guardando avanti riesco ad intravvedere, per la prima volta, la fine della strada. Forse per questo soprattutto sto bene. Vorrei rispondere così a Erminia, al suo distratto come va. Ma sarebbe fiato sprecato. La sua vita è sempre stata svagata. Una fuga continua e io a correrle dietro sperando di farla rallentare, farla ragionare, farla respirare a volte. Come oggi: lei fatica a prendere fiato, rincorre le sue storie riempiendosi la bocca di parole, cercando di convincere me a continuare la corsa, anche fuori tempo massimo. Per me invece il tempo è diventato un animale mansueto: non devo più ingaggiare sfide, né lotte. Se ne sta rinchiuso nelle bacheche della direzione e si limita a scandire gli stessi orari, tutti i giorni uguali. 

Alle sette e mezzo viene servita la colazione, nella sala comune, per socializzare. Alle nove c’è la distribuzione della posta, un appuntamento insignificante per me, che ricevo una sola lettera all’anno: quella della società elettrica del cimitero che mi chiede il pagamento della bolletta per la “Lux Aeterna” sulla tomba di mia madre. Una luce per tenere in vita un mucchietto di polvere ormai, che non riesco a farmi tornare in mente nemmeno la sua voce, persa nelle pieghe del mio cervello guasto.  

Alle dodici e trenta arriva l’ora del pranzo, servito da premurose quanto frettolose inservienti che ci chiamano “nonnine”. 

Nel pomeriggio ci si riposa o ci sono le attività, che vuol dire lavoro a maglia, cucito e lettura del giornale per chi ancora ha voglia di sapere cosa succede fuori di qui. Chi non ha voglia di niente, può inebetirsi davanti alla tv, che quella è sempre accesa, giorno e notte, nella sala comune. Alle sette tutti a cena, a prendere le pillole dall’infermiera e poi coprifuoco in camera, che domani è un altro giorno, se riesce ad arrivare. Io, come gli altri qui, sto bene così e non ho bisogno di imprevisti né di improvvisate.  

Ora tu arrivi in mezzo a questa mia giornata, commossa e rossa in viso, a dirmi che diventi nonna e io devo fingere stupore; felicità addirittura. Io devo immedesimarmi nella tua gioia di nonna, immagino, così come ho fatto sempre, cercando di vivere anche un po’ della tua vita per dare un senso alla noia della mia. Ma oggi non me la sento. Improvvisamente il gesticolare delle tue dita inanellate, il tuo modo di far dondolare gli orecchini scuotendo continuamente la testa mi sembra ridicolo. A te torna utile: questo tuo nuovo ruolo ti fa ringiovanire all’improvviso; diventare nonna ti farà spostare un po’ più in là l’odioso destino di “vecchia”. 

Io non sono madre e non sono nonna. Vecchia sì, soltanto vecchia: ecco quello che mi rimane. In fondo anche questo è un buon ruolo: infiniti vantaggi, sempre meno doveri, tanti privilegi. Avrei perfino la carta sconto per salire sui treni, se ancora avessi voglia di viaggiare. 

Ma questi sono solo pensieri inutili. Taccio e lascio che sia Erminia a continuare il discorso. Così come è sempre stato. Lei parla della sua famiglia, della gente di Lentisco, di Giovanni e di Maria, di Gilda e di Antonio come se fossero ancora tutti vivi anche per me. 

Erminia parla di corsi di ballo, gite di gruppo, bingo e tornei di burraco. Stordita da tutto quel fermento di parole e di orecchini, mi  trovo a fissare una delle foto sul tavolino. È estate, giù alla marina vecchia. Ci siamo tutti, in bilico sul pontile. Anche io ci sono, ora come allora. Mi sento addosso uno sguardo dietro gli occhiali da sole. Forse è Antonio: sono giorni che mi ronza intorno. Do una voce a Maria, anche lei con le gambe nel vuoto, a guardare il mare. Scommettiamo con un cenno e un sorriso: io spero in silenzio che Giovanni si decida a sedersi vicino a me, a sfiorarmi con parole segrete mormorate all’orecchio. Ma lui rimane in piedi, lontano. Non si volta nemmeno. È insieme ad Armando, come al solito.

È questione di un attimo, o sono minuti interi. Poi il sangue torna lentamente al cervello e mi rendo conto che molti di quei giovani sono già scesi dal pontile. 

Erminia invece continua a enumerare quelli vivi, che ancora fanno pranzi sociali, festeggiano nozze d’oro e organizzano tombole di beneficenza. La vita che racconta è un po’ come quella delle nostre ore di attività. Qui però è più facile, giochiamo a carte scoperte. Partite secche, senza punti, perché i pomeriggi sono brevi. Non potremmo sopportare le giornate lunghissime di una volta. Il giorno, si sa, è crudele con i vecchi. Non dà tregua. Non è stupido come la notte, che si lascia incantare dal Tavor. 

Ma Erminia non sembra accorgersi dell’indolenza del mio sguardo, delle mani che tremano lente. Lei è concentrata sul suo raccontare incessante di fatti e persone a me estranee. Passa dai problemi della gravidanza di Anna ai suoi ricordi di giovane madre ansiosa, dal pranzo di domenica scorsa con i parenti ai possenti menu natalizi di una volta, quando Natale arrivava ancora in pompa magna. È un parlare a ruota libera, come per scappare dal silenzio che potrebbe lasciare spazio a una mia domanda inopportuna. Stai tranquilla, vorrei dirle, non rovinerò la tua rappresentazione con un’uscita fuori luogo. Ma lei non mi dà nemmeno il tempo di rassicurarla. Continua imperterrita senza prendere fiato.

Guardo verso la finestra, sembra ancora estate. Forse Erminia ha ragione: Natale non arriva più. I vetri sembrano sempre puliti male, sulla superficie restano righe di polvere a onde qua e là, intorno agli infissi si distinguono aloni opalescenti e zone d’ombra. Noi siamo abituati a guardare attraverso queste lenti e non ci fa impressione vedere gli alberi un po’ ondulati, le nuvole deformi, il sole smangiato. Sarà anche per questo che i discorsi di Erminia a un certo punto, anche se mi sembrano sghembi, non mi stupiscono più di tanto. Può anche essere un effetto dovuto al flusso del sangue che va e che viene e non fa lavorare il cervello come dovrebbe. Erminia dice che lei in realtà non potrà fare la nonna a tempo pieno come spera la figlia. Lei non potrà occuparsi del nipotino e non sa come dirlo a quella poveretta che vorrebbe avere una mano, almeno i primi tempi. Dice che da quando è vedova ha dato un nuovo senso alla vita e vuole essere indipendente, senza dover sottostare ai ritmi imposti da qualcun altro, tanto più da un neonato. Dice che non ha più tempo: adesso ha troppo da fare. E tutto per colpa di Armando. Ti ricordi di Armando? Quel ragazzo alto: il calciatore. Ti ricordi di lui?  

Faccio fatica a calibrare la memoria: quella vicina, quella lontana, quella di medio raggio. Ragazzi non ne conosco di sicuro. Frequento solo vecchi. Ma il calciatore, quello c’è. È ancora su quel pontile, in quella foto. Ride. Helenio Herrera in persona lo ha notato. Andrà a Milano a giocare, lo porterà all’Inter. Diventerà famoso. Ormai è cosa fatta. La partenza è vicina. È così, con poche frasi accennate, che comincia lo sfottò. Tagliente come l’invidia, affilato come l’astio, insensato come il risentimento. Armando lascia la nostra squadra, abbandona gli amici, snobba il paese. Il pontile vibra di offese, sputi, insulti. Vibra della rabbia di chi è costretto a restare, dell’inquietudine di chi deve andare. Armando sa che senza di lui non vinceremo più il nostro campionato, eppure ha deciso di andarsene. Giovanni glielo rinfaccia aspro. All’improvviso non è più uno di noi. È un traditore. Giovanni insiste, si fa violento nelle parole, poi nei gesti, come non lo avevo visto mai. Erminia piange: è vero, sei un traditore, dice urlando. Antonio rincara la dose con un primo strattone. Vibra il pontile: sono spinte, calci, botte cieche. Il gruppo si fa branco feroce e in quel branco io, immobile con le gambe nel vuoto, guardo Armando cadere. Sbatte una, due, tre volte sui pali di sostegno e poi finisce giù, disarticolato come un fantoccio, nell’acqua che si fa roccia. 

Il giorno si rompe, come le sue gambe, le sue vertebre, le sue ossa. Un povero paralitico, singhiozzerà sua madre, lanciando sguardi d’accusa lungo i caruggi muti.

L’immagine di quel volo mi attraversa il collo ancora adesso e si posa davanti agli occhi, nitida come se avessi la vista perfetta di allora. 

Non è un ricordo: di quelli non ne ho più per fortuna. È un’apparizione, un’allucinazione forse. Di nuovo uno scherzo del sangue troppo denso, ma questa volta il flusso è incontrollato. Respiro. Erminia finalmente se ne accorge. Ferma il suo parlare, mi versa dell’acqua. Si capisce che non sa se restare o andare. Continua a spostare il peso da un’anca all’altra sulla sedia. Poi decide che la sua storia è più importante del mio affanno e va avanti senza più badarmi. 

Ebbene, dice che in gioventù c’era stata una storia segreta tra lei e Armando. Naturalmente prima del matrimonio e prima del fatto del pontile. Così lei lo chiama: il fatto. Non disgrazia, nemmeno tragedia. È un accenno lieve, come se nessuno di noi avesse dovuto scontare per il resto della vita il peso opprimente di quel pomeriggio con un carico soffocante di rimorsi. Erminia continua la storia del suo passato come se io non lo conoscessi: racconta del suo matrimonio con Mario, della nascita della figlia e tutto il resto. Insomma, dopo mi sono fatta la mia vita, dice. Senza più pensarci su, sottolinea. 

Ma ora Armando si è rifatto vivo. È stato con il nuovo telefono, continua Erminia, quello che manda i messaggi e anche le foto, se vuoi. Lui ha trovato il numero di lei non si sa come e hanno ricominciato a scriversi, come una volta. 

Adesso si incontrano ogni sera, di nascosto si intende, perché lui non vuole farsi vedere in giro. Ormai abita fuori e non vuole incontrare nemmeno per sbaglio gli amici di prima. Erminia parla piano; io non sento bene, ma riesco a capire che lei crede sia rimasto un conto in sospeso tra i ragazzi del paese e lui. E non se ne capacita.

Ricordi quel giorno sul pontile? No, dico, non ricordo. Beh, meglio così, risponde lei. Comunque quel giorno per lui è cambiata la vita intera: a me lo ha confessato, sentenzia Erminia con aria esperta.  

Nei miei occhi, solo per un attimo, lampeggia la certezza che quel giorno tutto sia cambiato non solo per chi è caduto, ma anche per chi ha urlato, spinto, sputato. Anche per me, che sono rimasta con le gambe a penzoloni, a guardare. Ma Erminia non fa in tempo a rendersene conto. Rossa a chiazze sul collo, smania per entrare nei particolari. Dice che passa ogni pomeriggio a preparare nuovi manicaretti, poi la sera lui arriva. Appare sulla porta con una bottiglia di vino rosso sotto il braccio. Stesso ciuffo biondo, stesso sorriso imbroglione. Entra senza chiedere permesso, con la sicurezza di chi è di casa. È lui che versa il vino, e finché non è finita la bottiglia non si alzano da tavola, ogni sera. 

Erminia racconta tutto d’un fiato, poi d’improvviso si ferma, cerca il mio sguardo assente e mi dice a bassa voce, come se non fossi sorda: «Olga, lui si ferma fino al mattino, ogni notte!».

Io non vorrei ascoltare più. Il sesso geriatrico è troppo anche per me che qui dentro mi tocca sentirne di tutti i colori ogni giorno, tra vecchi assatanati e impotenti che non si rassegnano a trovare la pace, almeno dei sensi. Erminia però non molla: lei è con Armando sotto quelle lenzuola, in mezzo a baci, promesse e improbabili acrobazie. Immagino quel vecchio storpio che cavalca le ossa artritiche di lei, ma dopo un po’ tutto è troppo anche per la mia immaginazione deforme.

Fingo un improvviso colpo di sonno. La mia testa ciondola, chiudo gli occhi, cambio il ritmo al respiro, ma i miei sforzi non servono a niente. Mi arrendo. Immobile sulla mia carrozzina, le gambe sospese nel vuoto, resto a guardare.

Erminia, completamente dentro la sua storia, non è più qui.


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Mani sporche

A seguito della nostra call Interno giorno, la classe di Apnea ’22/’23, insieme con la redazione e sotto la supervisione di Francesca de Lena, ha letto, selezionato e poi editato 5 racconti per la pubblicazione. L’autrice di Mani sporche è Giulia Zoratti: il suo racconto è stato editato dagli allievi editor Stefano Miniati, Daniela Pala e Francesca Morra.


Francesco smette di incrociare Nicoletta per le strade della città. Lui le scrive, vuole scoprire che fine ha fatto. Viene così a sapere che Nicoletta ha smesso di lavorare e di uscire di casa. La storia si svolge nella casa di lei, dove i due si incontrano e iniziano a confrontarsi sulle reciproche paure. 


di Giulia Zoratti


Francesco non sa dove è casa di Nic, ma se la immagina una villetta a schiera con un quadrato di giardino, con dentro un cane di quelli piccoli. Hai cani?, le scrive prima di venire. No, non ho cani, risponde Nic, e in effetti se li avesse glielo avrebbe già detto, ma Francesco vuole essere sicuro. 

Nic lo sa già che Francesco odia i cani, glielo aveva confessato durante una pausa pranzo. Lui lavora dall’altra parte della strada rispetto a dove stava lei, che era un negozio di toelettatura. Mi hanno morso da piccolo, le aveva detto – anche se non era vero, perché non lo aveva morso nessuno. A quel punto si era chiesto se Nic pensasse che lui era una persona fragile, piena di paure, di quelle che è più facile non invitare da nessuna parte perché ti causano un sacco di problemi. E invece lei lo aveva guardato negli occhi – come in profondità – e gli aveva detto che gli avrebbe fatto cambiare idea. Te ne dimentichi di quel cane, aveva detto. E come ci si dimentica di un cane che ti ha morso se quel cane non c’è mai stato? Ma a Fra piaceva raccontare quella storia, perché era una storia che permetteva alle persone di capirlo, se la racconti a qualcuno magari quello aggiunge pure che se fosse stato morso ce l’avrebbe anche lui la paura dei cani. Se invece gli dici che è una cosa nata tutta dentro la tua testa, be’ nella tua testa non ci entra nessuno.

Alla fine la casa di Nic non è come pensava Francesco ma un appartamento al terzo piano, i muri scrostati lungo le scale, l’odore pesante del cibo cucinato dai vicini che gli si appiccica addosso. Trattiene il respiro, suona il campanello e vede Nic affacciarsi ansiosa dalla porta socchiusa, sussurrando che sarebbe stato meglio se avesse scritto un messaggio per entrare, al posto di fare tutto quel casino. La gente parla. 

Quando entra Fra le domanda che fine hanno fatto i suoi, giusto per capire se può stare tranquillo o se si deve vedere spuntare da qualche parte gente che non conosce. Lei gli dice che vive da sola con sua mamma, la Laura. Da quel momento in poi la chiama solo così. La Laura è ammalata, oggi è in ospedale che fa la terapia.

È stata male un po’ alla volta, che non ce ne siamo nemmeno accorti, e poi subito si è programmata l’operazione – pausa – quasi subito, ha perso prima trenta chili se no i chirurghi neanche la prendevano, e solo per dimagrire ci son voluti quasi due anni. 

Deve essere stato uno schifo, dice Francesco.

Uno schifo, sì, poi quando è arrivato il momento dell’operazione ho dovuto mollare il lavoro, perché se no chi si prendeva cura di lei?, fa Nic, e si guarda attorno, impaziente, incazzata, con un gesto un po’ teatrale, che non è da lei.

E adesso come sta la Laura? 

Quella è di ferro! dice Nic, e con le nocche batte due tre volte sul tavolo, come a far capire che la Laura non la butta giù nessuno. Pare così scema a far quel gesto che Francesco si chiede se non stia imitando qualcuno, tipo uno che vuole convincerla che sua madre vivrà ancora tanto.

Nic gli propone di bere un caffè. Va nel cucinino e prepara la moka. Lui aspetta in salotto, seduto su un divano a disegni floreali.

E ora cosa fai?, le chiede giusto per non stare zitto.

Be’, faccio la baby sitter, gli risponde lei con una voce che si sente appena. I miei cugini ne avevano bisogno, ne avevano già una prima di me, una che faceva il liceo. 

Ma ti pagano?, chiede Francesco, che pensa subito che quella domanda non gliela doveva fare. Lei però non fa una faccia strana, risponde anzi come se le parole le conoscesse già a memoria – un po’ mi pagano, sì, ma meno di quella del liceo, comunque sono parte della famiglia e di solito queste cose si fanno gratis, vabbè. 

Francesco annuisce. Vabbè, dice anche lui. 

Quindi sono i tuoi cugini che vengono qui o sei tu che vai a casa loro?, chiede, non tanto per farsi i cazzi suoi, piuttosto vuole capire se si schioda mai da quell’appartamento con finestre che non ci passa nemmeno il sole perché davanti c’è un grattacielo che si prende tutta la luce.

Li portano qui, dice Nic mentre versa il caffè in due tazzine. 

A Francesco viene il dubbio che lei di casa non ci esca proprio più.

La conversazione non funziona come quando la sera uscivano dal lavoro e prendevano il bus verso il loro quartiere. Lei gli raccontava di ogni cane che aveva lavato, elencando tutti i nomi delle razze. Fra si inizia a chiedere se alla fine ne sia valsa la pena, di essersi sbattuto ad andare fin lì. Gli manca la Nic con la voce alta, quella che si faceva sentire chiara e tonda anche in mezzo alla gente all’ora di punta. Si ritrova con la tazzina bollente in mano e aspetta che Nic si decida a dirgli cosa ne è stato del lavoro che le piaceva tanto – o abbastanza, come diceva lei – e della felpa rosa che aveva come uniforme. Se quella felpa è ancora da qualche parte in casa, magari che aspetta di essere lavata, o se è già stata restituita, perché Nic sa che al lavoro non ci andrà mai più e quindi l’uniforme sicuro non le serve. E pensare a quella felpa gli fa subito pensare di togliergliela – suo pensiero masturbatorio ricorrente – ma guarda Nic e capisce che non è ancora quello il momento, allora si distrae con quello che c’è sul tavolo, dei libri per il test d’ammissione a Medicina. Non gli aveva detto che ci stava provando. Se la immagina trovarsi uno di quegli studenti/dottori come fidanzato, e gli viene voglia di tornare a casa. 

Vuoi fare l’esame? le chiede indicando gli appunti. E vorrebbe aggiungere che a Medicina ci entra chi ha il tempo per studiare, e non chi deve stare dietro ai cani, ai bambini o alla Laura. Ma poi queste parole decide di tenersele in testa.

Mmm sì, risponde lei. 

Non avevano mai parlato del futuro. Francesco aveva sempre pensato che dai vent’anni fino alla pensione Nic avrebbe lavorato nel negozio dei cani, e lui nell’azienda dall’altra parte della strada. Questo fino a quando non sarebbero diventati troppo vecchi, e poi niente.

Avevi detto che mi avresti aiutato tu con la mia paura, dice Francesco, lo avevi promesso. Ci butta alla fine una risatina, vuole che sia chiaro che è ironico, che sta scherzando, ma non sta scherzando per niente.

Cosa?

Con la paura dei cani. Ma se ora te ne vai. 

Nic punta gli occhi sul fondo della sua tazza. Pensavo che ti fosse passata, sai? Non ti ricordi quando abbiamo lavato insieme quella rottweiler, quella che faceva paura a tutti perché il padrone di prima l’aveva maltrattata e dicevano che se gli girava male era capace di strapparti tre dita in un colpo?

Sì, le ho fatto lo shampoo, risponde Francesco.

Sì, le hai fatto lo shampoo, fa Nic.

Ma funzionava che la mia paura scompariva solo quando c’eri tu. Se fossi uscita dalla stanza non ce l’avrei fatta.

Nic lo guarda supplicante. Sembra pensi qualcosa del tipo, anche tu? Anche tu con questo bisogno di me? Ma a Francesco non sembra di essere stato un peso, era stata lei a promettergli un aiuto, certo era passato del tempo, ma era stata lei a dirgli che gliel’avrebbe dato. Io non ti devo niente Fra, sembra invece stia pensando adesso. 

Sembra volerglielo dire, ma non lo dice, e non alza gli occhi dal fondo della tazza. 

 Dov’è la vecchia Nic che lo inchiodava, che lo metteva al muro e a volte lo zittiva, a volte lo lasciava senza parole? Gli occhi di quella vecchia Nic sono ancora lì, la pelle chiara e delicata, tutto ciò che di lei si può prendere e toccare, quello è ancora presente. Forse si può ancora tornare indietro, a quando gli aveva tenuto la mano e insieme  avevano accarezzato la sua paura.

Francesco si sposta più vicino a lei sul divano a fiori. Le piccole foglie disegnate tracciano un percorso che li unisce, interrotto solo da un paio di grosse macchie, la disattenzione di qualcuno. Ora sa che Nic se ne vuole andare via, perché in effetti nella loro città Medicina non c’è. Magari vuole diventare dottoressa perché è stufa di non capirci niente dei farmaci da dare alla Laura. O forse invece non la sopporta proprio più, la Laura, e vuole andarsene abbastanza lontano da vederla solo un weekend ogni tanto. Ma mentre lei gli appoggia una mano sulla gamba gli vengono in mente un sacco di domande, la prima delle quali è: come crede di studiare in un’altra città se non riesce nemmeno a uscire di casa? 

Mentre si baciano – lei sussulta solo un pochino perché in verità se lo aspettava – pensa che vorrebbe farle capire che si sta comportando da stupida. Da quanto è che non esci?, vorrebbe chiederle. Avrebbe voglia di trascinarla di fuori, se necessario prenderla per i capelli – per il suo bene – e farle vedere che può ancora uscire di casa ogni volta che vuole. Mi hai guarita, sono libera, siamo fuori!, direbbe lei, e lui le risponderebbe che può trascinarla fuori , ma tutti i passi dopo deve farli da sola. Vorrebbe essere per lei quello che è stato suo nonno per lui.  Il nonno aveva questo pastore tedesco che quando lui era piccolo gli saltava addosso ogni volta che entrava in giardino. Lo faceva cadere tutte le volte e tutte le volte lui finiva con la faccia a terra, le mani nel fango, e sempre si sentiva ripetere dal nonno che se non imparava ora ad avere a che fare con gli animali allora non avrebbe imparato mai, e sarebbe stato un guaio perché anche le persone alla fine sono animali. Una volta Francesco è caduto così male che gli è uscito un rivolo di sangue dal naso, e suo nonno gli ha detto che era stato uno stupido a lasciare che il cane saltasse in quel modo, senza controllo, perché se voleva imparare a stare con gli animali doveva imparare per prima cosa come non farsi male. A Francesco sembra che a Nic manchi qualcosa del genere – qualcuno che le insegni, che le apra gli occhi, che le sporchi le mani – ma poi gli viene il dubbio che a lui le parole di suo nonno non sono servite poi così tanto, e non gli è nemmeno chiaro se Nic non esce più perché si preoccupa di cosa può succedere fuori o di cosa può succedere dentro. Tipo non sa se Nic ha paura che un’auto la travolga quando attraversa la strada, o se invece ha paura che la Laura si tiri su dalla poltrona e cada e non si rialzi più.

A un certo punto Nic lo invita ad andare a letto. Lo accompagna in un corridoio. C’è una porta aperta, camera sua, e lui ci entra, ma no, lo corregge lei, andiamo nel letto della Laura che ha il matrimoniale. Lo vede stranirsi e gli dice guarda che ho appena cambiato le lenzuola. Entrano nella camera della Laura e sa di sapone di Marsiglia ma sa anche di disinfettante. C’è un grande letto con la testiera e i comodini dello stesso legno scuro, che ha un’aria vecchia, Francesco non sa se è tarlato per davvero o per finta come fanno nei mobili di adesso, e sul comodino ci sono dei centrini di pizzo, un poco gialli, con sopra tanti flaconi di farmaci, pillole e cotone. Non sembra il posto giusto per farlo ma Nicoletta inizia a slacciargli i pantaloni, e quando lei gli prende il cazzo, la prima cosa che lui pensa è che non ha mai incontrato una ragazza con le mani così ruvide. Lei è come se gli leggesse nel pensiero e gli dice che è lo shampoo dei cani, che le ha seccato tutta la pelle e ancora non è guarita. Sì che aveva i guanti, ma alla fine non li usava perché stava più tempo, e poi non le faceva schifo anche senza. Ricominciano. A nessuno dei due sembra strano parlare di qualcosa random tipo delle sue mani, o scopare alle tre del pomeriggio. Lui si era immaginato che lo avrebbero fatto di sera, in compagnia di una bottiglia di grappa trafugata dall’armadio in salotto, la abat-jour spenta, e a illuminarli solo il lampione che brilla fuori dalla finestra. E invece c’è il sole, che non risparmia neanche un difetto: Nic sembrava perfetta quando era vestita, ora si vede la pancia un po’ sporgente che poggia sui fianchi larghi. Francesco non sa bene cosa risponderle quando lei si toglie maglia e pantaloni e gli chiede se gli piace quello che vede. Nic aspetta una risposta lì di fronte a lui – nella forma più sensuale di una donna, lingerie – e sa che da lì è tutta discesa, perché dopo non le resta che scoprirsi del tutto, nessun reggiseno a regalarle mezza taglia in più, nessun centimetro di pizzo tra la sua pelle e quella di qualcun altro. E lui invece un po’ si scazza, e si chiede cosa stia cercando Nic, se vuole qualcuno con cui scopare o qualcuno che le faccia i complimenti. E non ci è mai arrivato che di fatto Nic sta cercando entrambe le cose, perché se stai tutto il giorno sul divano a fiori le possibilità di sentirsi un po’ umana sono poche, e per essere umani serve pure scopare, e pure qualcuno che ti dice che gli piace quando ti vede. Lui risponde che è bella, ma quello che vorrebbe dire è che non importa. 

Le toglie le mutande. Iniziano a scopare. Poi mentre lo fanno lui con una mano urta il comodino, e da lì subito cadono tutti i flaconcini di pillole e vanno sulla moquette. Le chiede scusa mentre continua, o almeno ci prova, perché si sente uno stupido, e quelle medicine gli fanno pure schifo, non hanno la solita apparenza sterile, sembrano appiccicaticce, e mentre cerca di capire se la mano gli è rimasta invischiata in qualcosa sente l’erezione che se ne va, quindi per riuscire a venire chiude gli occhi e inizia a pensare di essere da un’altra parte.

Quando finiscono li riapre e non dice niente. Lei sta un altro po’ zitta ma poi ricomincia a parlare della Laura, che in realtà potrebbe già camminare da sola ma cammina poco e solo con il girello. Prima cammina meglio è, dice. Francesco è stufo di sentire parlare della Laura e allora va in bagno. Butta il preservativo nel water e si siede sulla tavoletta. Aspetta che gli venga da pisciare. Davanti a lui c’è una confezione di pannoloni per adulti – è sempre Nicoletta che fa quel lavoro? Sa già la risposta e si inizia a pentire di una serie di cose, tipo di essere stato in quel matrimoniale.

Anche Nicoletta va in bagno e si toglie le lenti a contatto. Dice che le danno fastidio. Non si mette gli occhiali perché non le interessa, non c’è niente da vedere nel suo appartamento. 

Il letto alla fine fa un po’ schifo a tutti e due e allora non ci tornano, si vestono e vanno sul divano e lui prova a dire, così come se non gli interessasse, ma com’è che non esci più? Francesco odia che le cose che gli interessano deve sempre dirle come se non gliene fregasse niente, se no sembrano troppo serie e la gente non gli risponde. Lei invece risponde e gli fa: immaginati di sapere che c’è un grosso cane che ti potrebbe attaccare in qualsiasi momento, ma non sai bene quando. Lui resta zitto. Sono le cinque e mezza. Nic guarda l’orologio e fa una voce più preoccupata di quello che servirebbe, dice che tra poco la Laura finisce la terapia. Francesco lo sa che non c’è nessun bisogno che lui se ne vada di fretta, però capisce, ormai è ora di andare. Non si baciano quando si salutano perché sembra troppo, e lui non vuole sembrare quello fissato. Si infila la giacca, esce, va alla fermata del bus. 

Mentre aspetta si domanda se ci siano molti altri ragazzi che fanno cadere le pillole della Laura sulla moquette. E quanti di questi guardando i libri per il test di Medicina si chiedano in quale città andrà Nicoletta. Arrivato a casa si svuota le tasche. Un paio di monetine da due centesimi e la foto che voleva dare a Nic. Era stata tutto il tempo in tasca, con lui che si chiedeva chi dei due dovesse tenerla. In foto ci sono loro con la rottweiler ancora piena di schiuma. Sembrano una di quelle famiglie felici con il cagnolone, ma in una versione punk e senza figli. Si vede Nic guardare fisso l’obbiettivo. Forse ora fa quello stesso sguardo con altri ragazzi? Francesco fa una doccia per togliersi l’odore di disinfettante di dosso. Ma no, Nic ha chiamato lui perché non ha nessun altro. La casa è libera solo una volta a settimana quando la Laura fa la terapia elei è sempre chiusa lì, china sui suoi libri, a sognare di poterne uscire, ad aspettare Francesco che le ricorda di essere anche un corpo. 

Francesco apre WhatsApp. Guarda la chat con Nic ma non gli viene in mente niente. Mette il telefono in tasca. Appena posso le scriverò, pensa. Poi va in camera da letto, prende quel libro dal comodino, quello che sono anni che sta lì aperto a metà, e che non riesce mai a trovare il tempo per concludere. Ci infila la loro foto come segnalibro. Ripensa alla pelle di Nic, ruvida, calda. 


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apnea [scuola di lettura e editing] compie 10 anni! 🎉


🔎 CHE COS’È🔎


Apnea è una formazione per lettori unica nel suo genere: una scuola di lettura creativa, tecnica e critica di lungo periodo, che fornisce gli strumenti per trasformare la passione di leggere in una competenza professionale.


Per diventare un lettore forte non conta quanti sono i libri che leggi, ma quanto vale la tua capacità di leggerli: proprio come per la scrittura questa capacità s’impara, si educa, si perfeziona. Se vuoi specializzare il tuo occhio di lettore, se lavori in editoria, se vorresti fare il redattore, il giornalista culturale, l’editor, lo scout, l’agente letterario, il critico o se hai semplicemente una passione per le storie: Apnea ti dà gli strumenti per leggere professionalmente.


Un laboratorio di editing lungo 6 mesi è a tutti gli effetti un apprendistato. La classe di allievi editor lavorerà a un romanzo inedito seguendo passo-passo il lavoro che Francesca de Lena compie su ogni manoscritto che riceve in veste di scout, editor e agente letteraria. Si comincia con le prime impressioni e la direzione per il lavoro di (ri)strutturazione del testo e si finisce con il micro-editing: il perfezionamento frase per frase. Nel mezzo: lezioni su tutti gli elementi della narrazione (temi, visione e voce, personaggi e conflitti, trama e montaggio, forma e stile), esercizi pratici di lettura e selezione, prove di editing, incontri con l’autore del romanzo protagonista del laboratorio.


🗂️ COME FUNZIONA 🗂️


20 incontri in diretta online (+ 5 di bonus per i 10 anni):

  • 12 lezioni di lettura e editing
  • 3 discussioni con l’autore del manoscritto selezionato
  • 3 prove pratiche di lettura, discussione e selezione su testi diversi dal manoscritto in lavorazione
  • 3 prove pratiche di microediting, il lavoro di fino sul testo
  • 5 incontri con gli ex autori di Apnea per lavorare al loro nuovo romanzo

Ogni incontro durerà 2 ore, in diretta online. Ma si sfora sempre, quindi meglio prepararsi. Ci sarà poi il lavoro da svolgere a casa e la discussione di classe sarà costantemente attiva sul gruppo google APNEA 10.


Saranno forniti gli strumenti per imparare ad argomentare (scritto e orale) le proprie analisi sui testi, per esercitarsi a pensare e scrivere le valutazioni, per scomporre i romanzi e svelarne i meccanismi narrativi (personaggi, conflitti, obiettivi) e formali (struttura, montaggio, stile), per porre domande, proporre soluzioni, e per guardare alle storie scritte dagli altri con umiltà, rispetto e determinazione. Ci si allenerà a farsi avanti, consigliare, cancellare, appuntare, sostituire, annotare ai margini. Appassionarsi ed essere coraggiosi (sì, anche questo s’impara).


L’autore che sottoporrà il proprio manoscritto ad Apnea si confronterà con la classe e ri-scriverà il testo in accordo con i consigli degli allievi editor.

Durante il percorso la classe di Apnea collaborerà concretamente al lavoro di Francesca de Lena di lettura e selezione manoscritti, compresi quelli per l’edizione successiva di Apnea. Ci saranno occasioni di macro e micro-editing su testi brevi e/o inizi di romanzo, dunque le possibilità di testare le proprie capacità si moltiplicheranno.


INFO E ISCRIZIONI: scrivi a ilibrideglialtri@gmail.com


🎉🎉🎉 BONUS 10 ANNI DI APNEA 🎉🎉🎉


Per festeggiare la decima edizione incontreremo gli ex autori di Apnea per guardare dietro le quinte del loro nuovo romanzo e partecipare alla discussione e progettazione della scrittura.

1° ottobre, con Lavinia Bianca. La costruzione di un esordio: La vita potenziale. Incontro aperto a tutti.

Date da definire:

con Luca Mercadante, lavorare a una nuova storia per un personaggio seriale

con Nicoletta Verna, lavorare a una storia per ragazzi

con Armando Festa, lavorare al secondo romanzo

con Beatrice Galluzzi, lavorare alla progettazione di nuove idee


📕✏️ I RISULTATI 📗✏️


📘ROMANZI PUBBLICATI E PREMIATI DOPO IL LAVORO IN APNEA 📙


Presunzione di Luca Mercadante, minimum fax (menzione speciale Premio Italo Calvino 2017)

Il valore affettivo di Nicoletta Verna, Einaudi (menzione speciale Premio Italo Calvino 2020, vincitore Premio Severino Cesari opera prima 2021)

Sangue Cattivo di Beatrice Galluzzi, effequ

Mi chiamo Marcello Mastroianni di Armando Festa, Giunti

La vita potenziale di Lavinia Bianca, Feltrinelli Gramma


INFO E ISCRIZIONI: scrivi a ilibrideglialtri@gmail.com


✍🏼️ EX ALLIEVE E ALLIEVI CHE LAVORANO O HANNO LAVORATO CON I LIBRI, L’EDITORIA E LE STORIE ✍🏼️


Giuseppe D’Antonio, editor, correttore bozze, formatore editoriale

Francesca Regni, traduttrice

Lorena Bruno, organizzatrice eventi culturali

Claudio Della Pietà, recensore

Susanna De Ciechi, ghostwriter

Silvia Fornasaro, scrittrice

Giulia Pretta, editor

Antonella Monterisi, grafica editoriale

Manuela Mazzi, giornalista, scrittrice, formatrice

Sergio Vivaldi, editor, curatore di collana

Patrizia Carrozza, lettrice professionale e editor

Sara Cora, editor

Emanuela Canepa, scrittrice

Sarah Savioli, scrittrice

Chiara Sinchetto, formatrice

Alice Bassi, editor e insegnante di scrittura

Silvia Grossi, bibliotecaria

Federica Priola, editor

Sara Cappai, libraia

Susanna Bissoli, scrittrice, insegnante di scrittura creativa

Modestina Cedola, comunicazione web case editrici

Letizia Merello, traduttrice, redattrice

Alessandra Tamascelli, redattrice

Annalisa Maniscalco, redattrice

Marta Maimone, ufficio stampa

Chiara Averna, lettrice professionale

👁️Vuoi sapere cosa ne pensa chi ha partecipato alle scorse edizioni? Ascolta le voci di corridoio👂🏼


INFO E ISCRIZIONI: scrivi a ilibrideglialtri@gmail.com


📝 RICAPITOLANDO, CHE COSA SI FA 📝


  • molta teoria: narratologia, principi di scrittura, drammaturgia e sceneggiatura
  • molta analisi testuale e critica: su romanzi e racconti della letteratura di qualità, per smontarne i meccanismi e riconoscerne i meriti; su testi inediti per capirne errori, difetti e potenzialità
  • moltissima pratica: il lavoro collettivo sul romanzo inedito scelto e il lavoro singolo/di coppia/di gruppo su testi brevi e inizi di romanzo
  • esercizi settimanali di lettura e editing, per imparare l’arte di smontare, analizzare, proporre
  • 5 test scritti + 2 orali per scandire la propria crescita durante il percorso
  • 5 incontri con gli ex autori di Apnea per partecipare al lavoro sul loro nuovo romanzo

🤿L’apnea è quel tempo in cui si resta sott’acqua a guardarsi attorno con rispetto, concentrazione, sensi all’erta, intuito e spirito d’iniziativa: tutto quel che serve a comprendere profondamente cosa si ha tra le mani, prima di risalire in superficie. È un lavoro di immersione, maieutica e manipolazione, che si pone l’obiettivo di scegliere tutti i “cosa” e i “come” di cui una storia e una scrittura hanno bisogno.🤿


📌 CALENDARIO DELLE LEZIONI 📌


Gli incontri di APNEA sono il mercoledì dalle 18:00 alle 20:00 da ottobre 2025 a marzo/aprile 2026. Per diverse esigenze si troverà, se possibile, un accordo con la classe.

24 settembrelezione aperta e gratuitacome si legge un romanzo?
ottobreincontro aperto e gratuito con Lavinia Biancaesordire: La vita potenziale con Feltrinelli Gramma
22 ottobreprima lezionecosa cercare nelle prime 30 pagine di un romanzo
29 ottobrepausaper leggere il romanzo integrale
5 novembreseconda lezionecome leggere, scegliere, valutare e immaginare il testo che verrà/ consegna scritta: breve giudizio
12 novembreterza lezionecome rendere riconoscibile il testo: tirare fuori e sviluppare i temi di un romanzo
19 novembrequarta lezionecome rendere pulsante il cuore di un romanzo: ossessione, immaginario, idea di controllo e subliminale
26 novembreprimo incontro autoreconsegna scritta: scheda di lettura + test orale: discussione con autore
3 dicembrequinta lezionechi è il romanzo? Analisi e (de)costruzione dei personaggi
10 dicembresesta lezioneperché i personaggi non sono mai soli: analisi e (de)costruzione di relazioni e conflitti
17 dicembresettima lezionecosa è un romanzo? La trama, anche quando non si vede, con Luca Mercadante
7 gennaioottava lezionecome è fatto un testo narrativo, e perché: cosa s’intende per forma
14 gennaionona lezionecome architettare un romanzo: il montaggio e la struttura
21 gennaiosecondo incontro autoreconsegna scritta: prova di macro-editing
28 gennaiodecima lezionecosa ha detto? Parlar verosimile e letterario: analisi e (ri)costruzione dei dialoghi
4 febbraioal lavoro!leggere e selezionare il prossimo romanzo di Apnea
11 febbraioundicesima lezioneperché cerchiamo una voce, come si riconosce, chi e cosa c’è dietro uno stile letterario
18 febbraioterzo incontro autoretest orale: discussione singola con l’autore
25 febbraiododicesima lezionequando entrare nel testo, come fare micro-editing: indicazioni ed esempi
4 marzoal lavoro!leggere e selezionare il prossimo romanzo di Apnea
11 marzoal lavoro!consegna scritta: prova di micro-editing, condivisione e correzione 1
18 marzoal lavoro!consegna scritta: prova di micro-editing, condivisione e correzione 2
25 marzoal lavoro!pitch per selezionare il prossimo romanzo di Apnea

INFO E ISCRIZIONI: scrivi a ilibrideglialtri@gmail.com


👩🏽‍💻 CHI CONDUCE LA SCUOLA 👩🏽‍💻


Francesca de Lena: agente letteraria, editor, scout

Ha co-fondato l’agenzia letteraria United Stories. Ha fondato e dirige il sito I libri degli altri e la newsletter letteraria ILDA. Conduce laboratori e workshop di lettura e editing on line e dal vivo a Napoli, Roma, Formia. È personal editor e scout.


🥸 CHI È L’AUTORE DEL MANOSCRITTO SCELTO 🥸


L’autrice selezionata è Federica D’Alessandro. Il titolo di lavorazione del suo romanzo è “Le fedeltà impossibili”.


👉🏽 INFO E COSTO 👈🏽


Il costo di APNEA si divide in 3 tranche: 450 all’iscrizione, 450 entro novembre 2025, 450 entro gennaio 2026. I costi comprendono l’iscrizione all’associazione di promozione sociale ILDA I Libri Degli Altri, che dà diritto a frequentare il gruppo di lettura e visione serie tv BOLLICINE.

Per chi è iscritto a ILDA da prima di luglio 2025 c’è il 10% di sconto sulla prima tranche

Le iscrizioni chiudono il 15 ottobre 2025

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📢 DICONO GLI ALLIEVI EDITOR 📢


La forza di Apnea è sempre stata il passaparola: chi partecipa ne è felice e lo dice a gran voce. Vuoi sapere cosa pensano del corso le ex allieve e allievi? Ascolta le voci di corridoio.


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Storia di Amelia

A seguito della nostra call per Apnea scuola di lettura e editing abbiamo ricevuto diversi romanzi. Dopo aver scelto i romanzi per il laboratorio ne abbiamo selezionati altri tre i cui primi capitoli pubblichiamo ora sulla nostra rivista, dopo un editing con l’autore.


Storia di Amelia è di Irene Catanzariti.

La storia: Siamo a Trieste, al funerale di Amelia, una settantenne istriana morta con la testa tranciata da un cavo di acciaio dopo aver salvato la vita a un poliziotto.
Al termine della funzione, Diego, amico della defunta, legge una lettera fattagli pervenire dalla donna con l’indicazione di aprirla solo durante il proprio funerale: nella lettera Amelia si autodenuncia come assassina di quello stesso poliziotto, al quale ha invece salvato la vita, e come suicida.
La discrepanza rispetto alla realtà è tale che Diego decide di indagare. Si reca a casa di Amelia e trova ad attenderlo un’intera scatola di lettere contenenti la vera storia di Amelia.

Intervento di editing: lo scopo generale dell’editing per questo primo capitolo è stato quello di alleggerire alcuni passaggi, dosare le informazioni ed esaltare l’ironia della voce narrante.


Figurati se non doveva piovere il giorno del suo funerale! Aveva sperato in una splendida giornata di sole, accompagnata da Shine on You Crazy Diamond sparato a tutto volume in chiesa. E invece, cosa diavolo sta facendo suonare il dannato prete all’organista? La Lacrimosa di Verdi!

Lo avrà detto mille volte, a Diego: «quando muoio, in chiesa voglio i Pink Floyd.»

Mai una volta che una possa essere accontentata nella vita, neanche da morta.

Comunque, di gente ne è venuta parecchia ed è proprio soddisfatta di riuscire a vedere, come diceva sempre sua madre, “quelli che piangono per davvero e quelli che no”.

Amelia oggi, pure se morta, riesce a vedere tutto e tutti. Si piazza invisibile accanto ai crocchi di conoscenti o semplici curiosi riuniti davanti alla chiesa reagendo ai commenti con la sua usuale, ma ora trasparente, mimica facciale.

Entra anche lei con aria compunta in chiesa, camminando solenne accanto alla sua vicina di casa, la signora Tonia, quella con lo chignon stretto. Quella che in questo momento sta parlando con Lina, la moglie del panettiere.

«È stato un vero shock,  sa?»

L’altra accelera il passo, una donna minuta con un cappello grigio alla pescatora addosso, grondante di pioggia.

Tonia rallenta appena in modo da permetterle di stare al passo, senza però offrirle riparo sotto il suo ombrello.

«Prima quel gesto eroico e poi finire così, poveretta. Certo, è sempre stata un tipo un po’, come dire, particolare, ecco. E pure la sua morte – Dio l’abbia in gloria – non poteva che essere originale.»

«Per essere particolare, era particolare» aggiunge Tonia con l’aria di saperla lunga «si figuri che parlava con una pianta, una pianta carnivora per giunta. Le aveva anche dato un nome, Titti la chiamava. Diceva che l’aveva battezzata così da quando si era mangiata un canarino senza lasciarne neanche una piuma. Digerito, completamente.»

Amelia ride di gusto, gettando indietro il petto. Alzando gli occhi al cielo si allontana da quella cretina di Tonia, rivolgendo la sua attenzione a un tizio sulla settantina, segaligno e alto di statura, con un berretto a quadri calato di traverso sulla testa, che parla con un donnone vestito sobriamente come una guardia svizzera. Lo sente schiarirsi la voce nel palese sforzo di avviare una conversazione.

«Era istriana, proprio come noi» riesce finalmente a dire.

«La conosceva bene anche lei allora?»

«Beh, proprio bene, no. Diciamo buongiorno e buonasera. Però i miei genitori avevano conosciuto i suoi in Campo Marzio, eravamo vicini di baracca. Anche noi siamo stati tra gli ultimi ad andarcene.»

Al ricordo del campo profughi, Amelia ingobbisce la schiena, aggrotta la fronte e si allontana dai due, muovendosi come una zanzara tra un banco della chiesa e l’altro, finché viene attirata dalle parole di un ometto pelato, visibilmente soddisfatto di essere il fulcro dell’attenzione dello stormo di corvacci con cui divide la panca.

«Ma è vero che non han più trovato la testa?»

«Ma cosa dice, siòr Bepi! Sì che l’han trovata. Era solo volata qualche metro più in là. Non voglio neppure pensarci, l’ho sognata tutta la notte quella scena.»

«Certo che anche Amelia, arrivare senza casco a tutta velocità…»

«Il casco non lo portava mai, diceva che era la sua ultima forma di resistenza contro il sistema.»

«Se solo avesse avuto il casco forse non avrebbe fatto quella fine. E invece zac! Ha perso la testa.»

Allo zac! le comari sobbalzano piallandosi all’unisono contro lo schienale della panca, mano alla bocca a trattenere un grido. Amelia, invece, portandosi istintivamente una mano alla gola, stringe forte le labbra e rivive l’istante in cui aveva sentito il cavo incidere crudelmente la carne, poi le ossa e le cartilagini. La precisione millimetrica con la quale aveva trovato lo spazio esatto tra le vertebre la riempiva ancora di sconcerto.

«La smetta, siòr Bepi, la smetta subito, per carità» – sussurra una delle comari, dando voce al pensiero di tutte.

Amelia avrebbe voglia di mordere quel ridicolo cranio lucido fino a farlo sanguinare, così farebbe rimpiangere pure a lui di non indossare un bel casco rigido e soffocante. Solo un idiota può pensare che un casco possa proteggere da un cavo d’acciaio teso in mezzo alla strada.

Inizia la messa, che procede con la consueta monotonia finché, a metà funzione, il sacerdote invita a leggere un’intenzione per la defunta, o a condividerne un ricordo.

Nel silenzio più totale, mentre cento occhi saettano guardando di sguincio i vicini, attenti ad evitarne lo sguardo, si alza un uomo. È in divisa.

Oh no, c’è anche il mona. Quella camminata a gambe larghe la riconoscerei tra mille – Amelia lo guarda dirigersi verso l’altare. E quel taglio di capelli rasato ai lati. Che cos’ha oggi disegnato sulla tempia sinistra? Sembrano fulmini. E il cinturone? Tale e quale quello dello sceriffo di un film americano di serie b.

L’uomo si avvicina al leggio, sistema il microfono, lo abbassa a fatica. Estrae un foglietto spiegazzato dalla tasca.

«Grazie, Amelia.»

Amelia è livida.    

«Grazie Amelia, non ti conoscevo. Non ti conoscevo, ma a te devo la vita. Se non mi avessi arpionato con il tuo ombrello – un ombrellone più che un ombrello – e letteralmente buttato sul marciapiede, quella corriera che sopraggiungeva a tutta velocità, come solo qui a Trieste le corriere sanno fare, avrebbe fatto di me polpette e non sarei qui oggi al tuo funerale a leggere queste poche righe di ringraziamento. Per merito tuo potrò continuare a fare il mio dovere al servizio dei nostri amati concittadini italiani.»

La funzione continua, inesorabile, fino a giungere all’agognata formula che invita a rompere le righe.

«Prima di tornare alle vostre case, un amico della defunta ha chiesto il permesso di leggere una lettera per esaudire le ultime volontà della cara estinta. Proceda pure, signor Cabrera, la prego.»

A sentire le parole del parroco lo scalpiccio di chi si stava già alzando cessa di colpo e un centinaio di occhi incuriositi guardano verso l’altare.

Un uomo alto e brizzolato sui sessant’anni si avvicina al leggio sistemandosi la cravatta e raddrizzando la schiena. Ha gli occhi lucidi. La voce gli esce armoniosa, ma un po’ a fatica, quasi rotta dal pianto, provocando un lungo sospiro nelle donne in chiesa.

«Buongiorno, mi chiamo Diego Cabrera e sono – ero – un amico di Amelia. Ci conoscevamo da quasi quarant’anni. Ero poco più che ventenne quando la incontrai, appena arrivato a Trieste dal mio paese, il Cile, dal quale ero fuggito grazie all’aiuto della vostra ambasciata poco dopo l’inizio della dittatura. Amelia divenne la mia prima famiglia in Italia, mi accolse con la generosità che le era naturale e da allora siamo sempre rimasti amici.

«Di recente Amelia mi ha fatto recapitare una lettera in una busta sigillata, chiedendomi, ingiungendomi, anzi, com’era suo stile, di aprirla e leggerla solo al suo funerale, quando fosse avvenuto. Mai avrei immaginato potesse accadere così presto. Pensavo fosse una delle sue solite esagerazioni e invece. Forse se lo sentiva.»

Diego alza lo sguardo ad abbracciare la chiesa e rompe il sigillo, aprendo la busta con gesti misurati. Dopo aver preso un profondo respiro, inizia a leggere.

Buongiorno a tutti,

se state ascoltando il contenuto di questa breve lettera significa che sono morta. Ho voluto vi venisse letta per evitare le usuali beatificazioni ex post che si fanno dei defunti, solo per il fatto che sono morti.

Voglio subito fugare ogni dubbio sul fatto di essere stata o meno una buona persona: non lo sono stata.

Ho ucciso un uomo, un mona: un bulletto di periferia, un poliziotto. Ucciderne uno per punirli tutti.

A Diego cade quasi la lettera dalle mani, la stringe forte per non perderla e riesce a controllarsi. Il poliziotto si alza di scatto, i denti digrignati, e ripiomba a sedere impettito. In chiesa non si sente un rumore, tutti stanno trattenendo il fiato. Nemmeno il miracolo della Vergine che lacrima ogni dieci anni per cui la chiesa era famosa ha mai sortito un simile effetto, pensa il parroco furioso.

Diego intravede con la coda dell’occhio lo sguardo vitreo di don Girolamo che è scattato in piedi, quasi a volersi lanciare verso di lui, così, prima che possa muovere un passo, prendendo un respiro, continua rapido.

Poi mi sono suicidata, non certo per il rimorso: nessuno può pensare di sostituirsi a Dio e credere di cavarsela. Di attendere i tempi della giustizia divina non ci penso proprio, preferisco chiudere la pratica in fretta.

E ora vorrei proprio vedere la faccia del prete. Come farà a rimangiarsi le parole della messa che ha appena finito di officiare? Schiaccerà il tasto rewind e riporterà all’inizio il film del mio funerale per cacciarmi dalla chiesa?

Adesso vi saluto, augurando a tutti una buona vita e a te, amico mio,  dico grazie per aver esaudito quest’ultimo mio desiderio.

Amelia

A Diego iniziano a tremare le mani mentre il sacerdote in fretta e furia pronuncia il consueto la messa è finita, andate in pace.

Alza lo sguardo e vede sui banchi un centinaio di occhi sbarrati che lo fissano muti, raggelati. Poi un boato. I commenti scoppiano tutti insieme: increduli gli uni, offesi gli altri. Si sentono tutti presi in giro, la ritenevano un’eroina e invece è solo una povera pazza che ha voluto prendersi gioco di loro con una stupida lettera, palesemente falsa.

Dice di aver ucciso il poliziotto che l’ha appena ringraziata – perché è chiaro si tratti di lui – e gli ha invece salvato la vita. Sostiene di essersi suicidata mentre è sicuro al cento per cento che la sua morte sia frutto di un tragico incidente, con tanto di testimonianze filmate dalle telecamere dei negozi della via.

E allora perché?

Amelia è in visibilio, non si è mai divertita tanto. E pensare che doveva essere tutto vero, parola per parola, ma – come si dice – l’uomo propone e Dio dispone. Se fosse andata come aveva previsto non si sarebbe mai potuta godere quello spettacolo: da compianta eroina di cui tutti rivendicano l’amicizia, a povera matta-semplice conoscente in un lasso temporale di poco più di un minuto: da Guinness dei primati.  Adesso può pure allontanarsi soddisfatta da questa valle di lacrime, in ogni caso la dispensa ottenuta sta per scadere e non vuole farsi richiamare, chiude gli occhi e si abbandona.


Irene Catanzariti è nata a Milano nel 1966.
Dopo aver seguito i corsi della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, frequenta quelli del Penelope Story Lab di Ivano Porpora e della Bottega di Narrazione di Giulio Mozzi.
A dicembre 2022 ha concluso il corso di perfezionamento in Medicina Narrativa dell’Università di Modena e Reggio Emilia, corso seguito per unire due delle sue passioni: scrittura e naturopatia.